Borboni d’Italia

 
«Libera ed unita quasi tutta, per mirabile aiuto della Divina Provvidenza,
per la concorde volontà dei Popoli, e per lo splendido valore degli Eserciti,
l’Italia confida nella virtù e nella sapienza vostra»
(Dal discorso di Re Vittorio Emanuele II al Parlamento italiano, 18 febbraio 1860)

L’Italia nacque così: non per la forza delle proprie armi, né su impulso di una maggioranza popolare, ma per la fortunata combinazione di temerarie iniziative diplomatiche e di rivoluzioni progettate a tavolino, col benestare di Francia e Inghilterra, che se pure in alcuni momenti raffreddarono i loro entusiasmi per la causa del Piemonte, nel complesso ne appoggiarono l’espansione.

Molti proclami all’unità nazionale arrivarono roboanti dalla Rivoluzione francese, e furono ripresi nei circoli letterari, dagli intellettuali e dai funzionari governativi, ringalluzziti da un rinnovato rango sociale dopo lo scompaginamento napoleonico: su questo pugno di notabili – su questa fetta striminzita della borghesia, che a sua volta era una fetta striminzita della società tutta – i patrioti basavano i loro programmi.

Il resto del popolo era troppo preso dalla vita quotidiana, per avvertire qualcosa in più di un semplice eco, recepito a malapena: la maggioranza non capiva il senso di ciò che accadeva, non poteva neppure coglierlo, per la mancanza degli strumenti necessari, a iniziare dall’alfabeto – è vero – ma anche quell’analfabetismo era una questione di prospettiva.

Quel mondo formato da micro-mondi – dove tutto ruotava intorno al parroco, al farmacista e al rappresentante dell’autorità, che spesso non era neppure il Sindaco o il Potestà, ma il Gonfaloniere o il Legato, se non il notaio, lo scrivano del paese, o addirittura la levatrice o il medico condotto – restava impermeabile alla modernità. I più conoscevano solo il proprio paese, non andavano di là del podere in cui lavoravano. Il loro senso di appartenenza era campanilistico, comunale. Sovranità, governabilità, legittimità, questioni di confini, strategie militari e campagne belliche erano soltanto astrazioni, concetti troppo distanti dalle esperienze e dalle aspettative di quel mondo di micro-mondi.

Le masse rimasero assenti nei moti del 1820-21 come in quelli del 1830-31, perché in esse covava sì parecchio malcontento, ma nessun potenziale rivoluzionario; perché proprio non capivano chi fossero e cosa volessero questi esponenti dell’alta borghesia, e a volte persino dell’aristocrazia; perché – nella loro semplicità – faticavano ad accettare che ogni rivendicazione dovesse passare per una guerriglia.

«Non fidate a una classe sola la grand’opera di una rigenerazione nazionale» – ammoniva Mazzini – «Le moltitudini sole possono sottrarvi alla necessità d’instaurare il terrore, le proscrizioni, l’arbitrio». Era soltanto lui – Mazzini – a sentire il bisogno di dare un contenuto popolare al Risorgimento, fu l’unico a intuire che la nazione si sarebbe fatalmente scollata, se tenuta assieme soltanto col mastice della diplomazia e delle baionette straniere, e che un giorno le masse ne sarebbero addirittura diventate nemiche, se non fossero state protagoniste del suo processo di formazione.

L’Italia alla fine si fece nell’unico modo in cui era possibile farla, con la spregiudicatezza e il sopruso di una minoranza d’avanguardia su una maggioranza assente e inerte, e questo vizio d’origine avrebbe dato continui segni di sé, fino a pesare anche ai nostri giorni.

Sentirsi estranei –  più assoggettati che partecipi – è la storia di oggi, ma iniziò allora: il 17 marzo 1861.

Frontespizio di lettera da Lecce a Gallipoli del 17 marzo 1861
– giorno della proclamazione del Regno d’Italia –
affrancata per 2 grana, con due esemplari da 1 grano dei De Masa,
annullati con timbro “a svolazzo” di tipo 3.

Il Regno d’Italia sorge il 17 marzo 1861.

Protesta la gran parte dei Sovrani dei Regni preunitari: il Granduca di Toscana, che vive a Dresda; il Duca di Modena, da Vienna; la reggente di Parma, dalla Svizzera. Francesco II non si unisce al coro. Semplicemente scrive ai suoi rappresentanti diplomatici nelle capitali europee, per dichiararsi «impotente a invalidare i diritti suoi la chimerica frase di re d’Italia, data da una rivoluzione d’assemblea».

Il titolo di Re d’Italia – «per Re Vittorio Emanuele e i suoi discendenti» – è riconosciuto a rilento, a livello diplomatico: l’Inghilterra – che pure aveva avuto un ruolo centrale nella sua nascita – si pronuncia solo il 30 marzo, seguita dagli Stati Uniti d’America, il 13 aprile.

La Francia arriva tardi, il 15 giugno, e accompagna la sua approvazione con una nota di scetticismo sulla politica di unificazione italiana; ribadisce i diritti dello Stato Pontificio sulle province usurpate, e la necessità di proteggere Roma con la presenza di una propria guarnigione militare; precisa che solo la Lombardia può considerarsi legittimamente acquisita, come peraltro già affermato nella Conferenza di Varsavia dell’ottobre del 1860.

Sulla scia delle grandi Potenze si accodano le minori.

Il Portogallo – Stato cattolico come la Francia – si pronuncia il 27 giugno; lo seguono, a luglio, la Grecia, l’Impero ottomano e i Paesi scandinavi.

Il riconoscimento di Olanda e Belgio avviene in due tempi, tra a luglio e novembre, dopo un acceso dibattito parlamentare.

Alla fine del 1861 rimane ancora l’ostilità dell'Impero austriaco, della Corte di Spagna, della Russia, della Baviera, della Prussia e degli Stati della Confederazione germanica.

Napoleone III, più che un’Italia unita, immaginava una federazione di Stati italiani
in cui lo Stato Pontificio avrebbe avuto la funzione di arbitro e la Francia la supremazia politica.
Si trovò obbligato a dirsi «felice di poter riconoscere il nuovo Regno d’Italia»
 – quando la prepotenza degli eventi sovrascrisse i suoi progetti –
precisando peraltro che «un’aggregazione nazionale completa non possa essere durevole 
che a patto di essere stata preparata dall’assimilazione degli interessi, delle idee, dei costumi di vita»
e quindi che «l’Unità avrebbe dovuto precedere l’Unione».

Ci fu però un’altra nazione che tardò a riconoscere il nuovo Regno, una nazione dentro il Regno, da contestualizzare non solo in termini geografici o istituzionali, ma soprattutto antropologici, etnici e letterari – realmente umani – all’interno di un processo che è sì storico, ma che non si regge solo sulla Storia.

È quella nazione napoletana che continuò a stampare francobolli borbonici ancora sino all’inizio del 1861, e a utilizzarli anche dopo il 17 marzo 1861, sebbene una disposizione del Ministero delle Finanze stabilisse di sospenderne la produzione e già il decreto dittatoriale del 9 settembre 1860 imponesse ai suggelli dello Stato «lo stemma della real Casa di Savoia».

È quella nazione napoletana che obbligò il Governo italiano a prolungare l’utilizzo dei francobolli borbonici sino al 31 dicembre 1861, e che nei fatti riuscì ad andare oltre, avendosi dei loro utilizzi anche a 1862 inoltrato.

È quella nazione napoletana che testimonia un passato che permane e si trascina, che non vuol passare, e ci ricorda che l’Unità avrebbe dovuto precedere l’Unione.

 


 

30 marzo 1861




13 aprile 1861

 
Lettera indirizza a “All’Illustre Italiano… Avvocato in…", 
perché a volere l’Italia erano loro: gli avvocati, i notai, i medici, i borghesi. 
L’impiegato postale tassò al principio la lettera per 2 grana (segno “2” a penna),
convinto evidentemente della cessata validità del francobollo da 1 grano 
(per cui era come se la missiva non fosse affrancata affatto); 
poi, accertato che i francobolli borbonici erano ancora in uso, 
rettificò l’errata tassazione di 2 grana (col timbro ovale “Corretta”, in rosso) 
ma segnalò pure che l’affrancatura rimaneva insufficiente
(col timbro “Tassa per insofficiente francatura”) 
e applicò la giusta tassazione di 1 grano (segno “1” a penna). 
La confusione nell'interpretazione dell’affrancatura
è lo specchio del particolare periodo storico: 
era il 13 aprile 1861, come racconta il datario circolare, 
e due mesi prima, il 13 febbraio, la Direzione delle Poste di Napoli 
aveva preso in carico la prima provvista di una nuova serie di francobolli
senza però diffondere alcuna comunicazione di cessazione di validità dei bolli borbonici. 
A inizio marzo erano poi entrate in vigore le tariffe postali del Regno di Sardegna 
e poco più di due settimane dopo – il 17 marzo – era stata proclamata l’unità d’Italia. 
L’impiegato postale non si raccapezzò in questo tourbillon 
– tra vecchi bolli e nuove emissioni e tariffe, sotto la potestà di un nuovo Stato – 
e ne uscì fuori un documento che testimonia tutto il travaglio del momento.




17 aprile 1861




18 aprile 1861

 

Cavour non si fida di quella testa calda di Garibaldi, e Garibaldi disprezza quel calcolatore di Cavour.
L’impresa dei Mille ha scompaginato i progetti piemontesi, originariamente limitati al Nord Italia,
ma il Conte li ha pragmaticamente rimodulati per volgerle la situazione a suo vantaggio:
ha spedito l’esercito sabaudo nelle terre “liberate” da Garibaldi,
col pretesto di imbrigliare la rivoluzione, di evitare l’anarchia.
Per il Generale delle camicie rosse è un affronto da vendicare,
e quale occasione migliore della seduta della Camera del 18 aprile 1861,
 la prima del Regno di Italia, dedicata ai destini dellarmata meridionale?
Garibaldi irrompe a Palazzo Carignano in camicia rossa, sombrero e poncho grigio sulle spalle,
tra gli applausi della Sinistra e i sarcasmi della Destra.
Arriva subito la prima stilettata: «Domando ai rappresentanti della Nazione
se come uomo potrò mai stringere la mano a colui che mi ha reso straniero in Italia».
Allude alla cessione di Nizza, la sua città natale,
accettata da Cavour per tacitare la Francia sull’annessione piemontese dei Ducati,
Il Conte non reagisce e Garibaldi prende ancora più forza.
«I prodigi operati dall’armata meridionale furono offuscati
solamente quando la fredda e nemica mano di questo ministero faceva sentire i suoi effetti malefici.
Quando l’orrore di una guerra fratricida provocata da questo ministero».
Stavolta Cavour perde le staffe: «Non è permesso di insultarci!».
Ma il Generale gli dà sulla voce. «Sì, una guerra fratricida!».
A scontrarsi non sono solo due visioni dell’Italia, ma due tipi di italiano:
l’uno, Cavour, preparato, concreto, frequentatore delle élite
ed innamorato del suo Paese come solo uno straniero può esserlo;
l’altro, Garibaldi, improvvisatore, idealista, seduttore delle folle,
innamorato del  suo Paese come può amarlo un avventuriero di gran cuore.
Ma poi c’è un terzo italiano, interpretato dal Colonnello garibaldino Nino Bixio.
«Io sorgo in nome dell’Italia e della concordia!» esordisce.
E i deputati gli rispondono «bravo!» all’unisono. 
Il Colonnello rende omaggio a Garibaldi come soldato e a Cavour come politico,
appoggia l’inquadramento delle camicie rosse nell’esercito regolare
e ottiene sul posto la promozione a Generale.
È lui, alla fine, il Padre della Patria,
il vero italiano, l’eterno democristiano.




24 agosto 1861

 

 

 

17 maggio 1862

Lettera da Otranto a Lecce, del 17 maggio 1862, affrancata con 1 grano dei De Masa.
il francobollo fu annullato con doppi tratti di penna incrociati, per segnalarne il fuori corso
e la lettera fu conseguentemente tassata per 3 grana.
L’affrancatura sarebbe stata insufficiente anche nel periodo di validità,
dovendo correttamente pagare 2 grana e non 1. 

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