Vi presento il Signor Fabiani
- Ci sono dei curiosi personaggi, più numerosi di quanto si immagini, tutti diversi tra loro e soprattutto dagli altri, che assecondano una passione attraverso la raccolta di oggetti di una stessa categoria, tenuti in un ordine relativo e significativo. Li circondano di cure e attenzioni, li custodiscono e li proteggono, per il loro valore simbolico e affettivo, per la loro unicità. Se li godono ogni volta che possono, ma di fatto li hanno sempre in testa. Occasionalmente li mostrano ad altri – chi con compiacimento, chi con pudore – narrando aneddoti e condividendo riflessioni, che finiscono col procurargli una vertigine. Per questi oggetti – per raggiungerne il possesso – diventano capaci di gesti impensabili, anche parecchio distanti dalla loro personalità, e a volte persino dall’etica o del semplice buon senso, al punto da aver attirato l’attenzione di romanzieri e psicologici.
Sono i collezionisti, e lei – Signor Fabiani – ne fa parte.
Ha tratteggiato un bell’affresco del collezionista: molti punti lì condivido, altri sono da qualificare, altri ancora – se posso – da emendare.
- Ci mancherebbe. Mi premeva solo abbozzare l’agenda della nostra conversazione. Potremo analizzare ogni passaggio col dettaglio desiderato, per confermarlo, smentirlo o rettificarlo, per far chiarezza su un fenomeno e su chi se ne fa interprete – il collezionismo e il collezionista – circondati da un’aura di fascino e mistero. Da dove vogliamo partire?
Non saprei, sinceramente. Il collezionismo è un processo circolare, non c’è un “prima” e un “dopo”. Possiamo solo scegliere un punto di ingresso, e iniziare a girare. Mi dica lei se ha delle preferenze.
- È un classico – e mi perdonerà il cliché – rievocare la scintilla da cui è nato tutto, la prima volta che la visione di certi oggetti ha suscitato una curiosità, un’emozione, e di conseguenza un interesse a raccoglierli e studiarli.
Partire da ciò che sembra un inizio… è un buon inizio, sì.
E lei ha detto bene: il collezionismo è un’attività affascinante, ma soprattutto misteriosa, ancor oggi indecifrabile ai più; si fatica a coglierne finalità e significati, a condividere i motivi per cui si dedicano tempo e risorse – intellettuali e materiali – a mettere insieme dei “vecchi rettangolini di carta colorata”, come nel mio caso; quali soddisfazioni possano dare, quale vantaggio se ne abbia.
Gli stessi collezionisti sono consapevoli dello stigma che si portano addosso: Walter Benjamin registrava una diffusa e radicata «la diffidenza nei confronti del collezionista come tipo sociale» – verso cui rinunciava a ogni difesa: «niente è più lontano dai miei propositi che quello di scuotervi da tale convinzione» – e Mario Praz, forse per non lasciare l’ultima parola ad altri, dichiarava di vedere in ogni collezionista «qualcosa di profondamente egoistico e limitato, di gretto addirittura».
Eppure i collezionisti non fanno altro che esprimere – sebbene al più alto grado – uno stato d’animo presente in ognuno di noi. A me sembra ovvio.
- Non sarà il caso di palesare questa “ovvietà”? Come nel racconto La lettera rubata, di Poe, ci vuole abilità per trovare ciò che è nascosto bene, ma servono capacità straordinarie per accorgersi di quel che sta sotto gli occhi di tutti.
In tutti noi c’è il bisogno di materializzare i ricordi, di custodire le esperienze di vita in oggetti che le possano rimettere in scena ogni volta che si torni a osservarli.
I collezionisti conducono alle conseguenze ultime la naturale inclinazione
umana a circondarsi di oggetti carichi di significati, che qualificano e strutturano la vita, e a volte arrivano persino a
riconfigurarla.
- Può dare degli esempi facili da afferrare, di immediato riconoscimento per tutti?
Un cigno di Swarovski fu il mio primo regalo di compleanno per la donna che sarebbe diventata mia moglie, e da allora a ogni ricorrenza – anniversari, festa della mamma, promozioni sul lavoro – un nuovo Swarovski si unisce alla serie.
Ogni volta che visito una nuova città, in Italia o all’estero, acquisto un bicchierino da caffè caratteristico del luogo, così come, a ogni viaggio della nostra famiglia, ci premuriamo di portare un ditale a mia suocera, che ha svolto la professione di sarta per tutta la vita.
Questi oggetti – nella loro semplicità – trasformano uno spazio ordinario – lo scaffale di una libreria o la cappa di una cucina, ma potrebbe trattarsi anche di un album o di una teca – in luogo magico dove le “cose” parlano: è un incantesimo che – se riusciamo a cogliere – porta serenità, gioia e una dolce malinconia.
- Devo confessarle che in un parco del paesino dove sono cresciuto c’è una panchina da cui mi tengo ben lontano, ogni volta che mi capita di ritornare a casa. Su quella panchina aleggia ancora la fine del mio primo amore, su quella panchina vedo fantasmi invisibili a chiunque altro, tranne, forse, a quella ragazza che ora chissà dov’è e cosa fa.
La capisco.
Spesso concepiamo l’atto del “vedere” come il semplice rilevamento fisico di forme, colori e movimento, ma in numerose circostanze vediamo anche attraverso il nostro passato, o meglio, l’oggetto sotto i nostri occhi diventa un intermediario tra il visibile e l’invisibile, tra il mondo di ora e il mondo allora.
D’altra parte la vita è ossessionata dai ricordi, a qualunque età. Tutti siamo impregnati di una memoria che avvolge le nostre esistenze, a qualunque stadio ci si trovi.
- Come se lo spiega?
I ricordi preservano la nostra l’identità, in un mondo per sua natura in continua – e spesso rapida e brusca – trasformazione.
Gabriel García Márquez è arrivato a dire che la vita non è quella vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla, in una presa di posizione unconventional che ristabilisce il primato della percezione sulla realtà.
Persino i fatti più tristi si trasfigurano, e le ferite e la sofferenza non appaiono più così tremende, nel ricordo. Tutto acquista un senso nella narrazione retrospettiva.
- Davvero lei non ricorda nulla di spiacevole?
Non esattamente. Dico però che i miei ricordi – tutti i ricordi, di qualunque segno – sono comunque protetti, filtrati dal tempo e ammorbiditi dall’esperienza.
Non a caso la centralità dei ricordi nelle nostre vite fa sì che non siano mai stati lasciati alle imprevedibilità dei singoli, ma codificati in storie ricche di significati, tramandate oralmente o per iscritto. Mi spingerei a vedere nei ricordi – nella loro forma narrativa – una funzione “religiosa”: quella di far credere – se vogliamo di illudere – che ciò che accade abbia un senso, che la vita non sia un ammasso di casualità, poco o nulla governata dalle azioni dei protagonisti.
- Giuseppe Pontiggia – un pioniere della cosiddetta “scrittura creativa” – sosteneva che scrivere fosse un modo straordinariamente intenso di vivere, e che vivere era un modo indiretto e preparatorio allo scrivere. Secondo lei può dirsi lo stesso del collezionismo?
Vedo così tante affinità logiche e tecniche tra la scrittura e il collezionismo, che le penso come ad attività isomorfe, in corrispondenza biunivoca, ma l’intreccio tra narrativa e collezionismo meriterebbe l’apertura di uno spazio autonomo, di un discorso a sé.
- Volendo restare aderenti al tema della nostra conversazione, senza lasciare in sospeso l’argomento, c’è un’opera che si sente di consigliare – un romanzo, un racconto, o anche un film o una serie tv – che mette il collezionismo al centro della narrazione e ne restituisce i principali significati?
I palloni del signor Kurz – senza dubbio – un racconto di Michele Mari, nella raccolta Euridice aveva un cane, pubblicata da Einaudi.
In generale sono dell’idea che la frase “tutto è stato già detto” vada rovesciata nel suo contrario, per chi coltiva ambizioni di scrittura, perché “niente è già stato detto” per uno scrittore, o almeno niente di quello che lui vuol dire per mezzo della scrittura, nel senso che niente di ciò lui sta per scoprire grazie al linguaggio della narrativa scritta è stato mai detto prima da qualcun altro.
E tuttavia non saprei dire cos’altro si possa scrivere per rendere l’essenza del collezionismo, dopo I palloni del signor Kurz.
- Chi non vuole spoiler narrativi può saltare oltre, ma sul piano del metodo sarebbe interessante sapere di cosa parla il racconto e soprattutto perché l’ha colpita così in profondità.
La storia è ambientata in un collegio maschile, negli anni ’60 del secolo scorso.
«L’unica cosa bella, nella triste vita del collegio» – nella percezione di Bragonzi, il ragazzino che fa da protagonista – sarebbero le partite di calcio tra gli allievi, se non fosse che il campetto confina con la proprietà del signor Kurz, e se per accidente il pallone finisce nel suo cortile, allora è perso per sempre, non c’è verso di riaverlo indietro, nemmeno su sollecitazione delle istruttrici.
Se esteriormente le due squadre si contrappongo tra loro, tutti i ragazzi stanno in realtà giocando contro il signor Kurz, tutti hanno lo stesso obiettivo – evitare che il pallone finisca oltre il muro – che però avvelena il piacere del gioco, perché li obbliga a una serie di accortezze che ne limita la liberta d’azione.
In un modo o nell’altro, tuttavia, l’esuberanza giovanile finisce sempre per avere la meglio e i palloni vengono persi uno dopo l’altro. Leggo da una pagina del racconto: «erano finiti dal signor Kurz almeno altri dodici palloni; poi, stanchi di tanti dolori, essi non giocarono se non con palle di stracci annodati che avevano il vantaggio di non sollevarsi da terra, mostruosi turbanti che sostenevano la finzione di sfera per non più di mezz’ora, poi incominciavano a sfarsi, grevi comete che si trascinavano dietro una coda pulverulenta di stracci».
- Poveri ragazzini…
Sì: siamo portati spontaneamente a empatizzare con loro, e gli siamo emotivamente vicini quando decidono di dismettere i panni delle vittime, di porre fine ai soprusi organizzando una spedizione notturna nel cortile di Kurz, per riprendersi i loro palloni.
- Mi lasci indovinare, per quanto sia facile: siamo a una svolta narrativa.
Precisamente.
Bragonzi – il protagonista – ha il compito di “invadere” il cortile di Kurz, mentre gli altri compagni fanno la guardia dall’altro lato del muro.
Il ragazzino si avventura in quel dominio oscuro, e a un tratto la sua torcia illumina una serra di palloni: ogni pallone è custodito in un vaso, ogni vaso riporta un’etichetta con l’indicazione del giorno d’arrivo del pallone nel giardino, dal 1933 sino all’anno corrente, il 1965. E tutto cambia all’istante.
- Che vuol dire “tutto cambia”?
Che il signor Kurz non è più «l’uomo crudele in agguato», «un enorme ragno nero rapidissimo a gettarsi sui palloni che come grassi insetti cadevano nella sua rete», e che «afferratili con le sue immonde zampe, li succhiava orribilmente fino a lasciarne floscia la spoglia», come il ragazzino lo immaginava all’inizio.
Al contrario, il Signor Kurz ama i suoi palloni, li custodisce e li protegge: «aveva disposto ogni pallone nel vaso in modo da porne in vista la parte migliore, quella meno ammaccata o meno scucita, o quella con le facce e o le firme, come se a quei palloni volesse bene».
Il Signor Kurz, nel sequestrare i palloni, li porta in salvo, evita che siano «lacerati dai denti dei cani o bolliti dal sole o ciulati nel parco».
E i palloni, nel sopravvivere ai legittimi proprietari, diventano la memoria storica delle partite giocate: «le discese di Serceni, il caracollar di Saniosi, i fallaci di Piva, le teghe di Fognin», e poi «le facce sudate, le nubecole di terra, le crosta sui ginocchi» e ancora «le discussioni sui fuorigioco e i pari e dispari per fare le squadre» e infine «l’ira e la gioia», tutto questo fluire viene cristallizzato nel pallone, tratto amorevolmente in salvo dall’inesorabile trascorrere del tempo.
Brangonzi attraversa quel museo, quella collezione, in un crescendo di emozioni, sino al punto che gli procura «un brivido su tutto il corpo»: i vasi ancora vuoti destinati ad accogliere i palloni del futuro, i vasi portatori della memoria delle partite che verranno, delle partite ancora da giocare.
Dove sono quei palloni, i palloni del futuro, in quel preciso momento? Quanto tempo servirà per vederli arrivare «come frutti maturi dal muro»? Nessuno può dirlo né pronosticarlo. Si può solo attendere, fiduciosi nel loro arrivo, perché la fede nella riuscita è uno dei sentimenti primari del collezionista.
- Non mi dirà che torna dai suoi amichetti a mani vuote?
Non solo torna a mani vuote, senza palloni, ma l’ossessione dell’adulto si trasferisce al ragazzino, e da lì a poco Bragonzi lancerà volutamente oltre il muro il pallone appena ricevuto in regalo – un «sontuoso Derby Star Deliciae Platearum» che «chissà suo padre quanto aveva dovuto girare per averlo, e quanto l’aveva pagato» – per intrappolare per sempre la sua infanzia nella collezione di Kurz.
- Provo a fissare i punti nodali della sua linea d’argomentazione, per mia chiarezza: i ricordi sono una parte centrale della nostra vita, ma serve coltivarli con amore e consapevolezza, se non si vuole che il tempo li usuri, sino a farli sparire; le narrazioni – orali o scritte – sono il classico modo per trarre in salvo la memoria e tramandarla in una forma ricca di significati e insegnamenti; e oltre alle narrazioni tradizionali, fondate sul tecnicismo della parola, ve ne sono altre basate sulla raccolta ragionata di oggetti.
Lei ha mostrato diversi esempi, alcuni reali – bicchierini e ditali – altri ripresi dall’inventiva di uno scrittore – i palloni da calcio – e molti altri ancora se ne potrebbero dare, proseguendo per questa china. Però mi chiedo – e le chiedo – quale sia la struttura comune a casistiche così eterogenee, se vi sia una stessa ingegneria a cui soggiace l’edificazione di questi teatri di memorie così diversi nella loro forma esteriore.
Estrarre gli oggetti dal circuito delle attività ordinarie, dal contesto naturale in cui si trovano, privarli del loro originario valore d’uso per sovraccaricarli di significati: questo è il punto di partenza.
Io non bevo il caffè nei bicchierini acquistati nei viaggi, né mia suocera usa i ditali ricevuti in regalo per cucire e il signor Kurz non giocava coi palloni che finivano nel suo cortile: è questa messa tra parentesi dell’oggetto – la sua sottrazione all’immediatezza – che lo riesce a far parlare.
Quando gli oggetti sono liberati «dalla schiavitù di essere utili» – per dirlo con le splendide parole di Walter Benjamin – si apre uno spazio per consegnarli un valore simbolico e spirituale, in alcuni casi scientifico o storico, in ragione della quantità di significati e conoscenze di cui sono portatori, del loro potere evocativo.
Il loro contesto di partenza viene distrutto, non esiste più, ma il trasferimento in un’altra cornice crea una nuova storia e una nuova origine, li alza di rango: diventano oggetti speciali e preziosi, e mi spingo a dire vivi, per la possibilità di stabilire un’unità tra persone e cose – tra fisico e psichico, tra materia e pensiero, tra animato e inanimato, tra materiale e spirituale – attraverso i significati affettivi e culturali che il soggetto riesce a proiettargli.
Per tutto ciò, la domanda che spesso ci si sente rivolgere – “ma cosa ci fate, voi collezionisti, con gli oggetti che raccogliete?” – tradisce la mancata comprensione della logica del processo.
Noi non raccogliamo oggetti “per farci qualcosa”. Li raccogliamo – li selezioniamo e li accostiamo, creando rimandi reciproci – per portarli fuori dallo spazio e dal tempo dei passaggi della vita.
Noi collezioniamo per ricostruire un mondo dentro il mondo e offrirlo allo sguardo di chi sa osservarlo, per stabilire un ponte tra ciò che si trova materialmente sotto gli occhi e la realtà da cui proviene.
«Basta osservare come un collezionista maneggia gli oggetti della sua vetrina» – scrive ancora Walter Benjamin – «Non appena ne prende in mano uno, il suo sguardo ispirato sembra trapassare l’oggetto e perdersi nelle sue lontananze. Di qui il lato magico del collezionista».
- Bicchierini da caffè, ditali e palloni da calcio ci hanno collocato su una traiettoria elicoidale: siamo arrivati ad alta quota, laddove l’aria si fa rarefatta.
E allora torniamo in pianura e riposizioniamoci su un rettilineo: cos’è mai l’esortazione “collezionali tutti!” – nelle pubblicità dei giochini contenuti negli ovetti di cioccolato e nelle bustine per bambini – se non un solleticare la fisiologica tendenza – presente sin dall’infanzia – a sottrarre gli oggetti al flusso della realtà, per costruirci un mondo sotto il nostro controllo?
Tutte le collezioni – anche le più innocenti o infantili – esprimono il desiderio di fissare dei passaggi nodali della nostra vita, di contrastare la precarietà e il caos dell’esistenza, di eludere la dispersione che la caratterizza, attraverso una volontà di segno opposto, di conservare, ordinare e interpretare le cose del mondo – di salvarle dalla confusione e dalla frammentarietà – di ricondurre una realtà parcellizzata e disgregata a un senso compiuto ed unitario.
E nella ricerca continua di altro materiale, di altri oggetti – non semplici varianti, ma tasselli di una visione, di un mondo in costruzione – si rinforza la nostra percezione di poter controllare e determinare l’ambiente, prende forma una realtà che guadagna e produce senso, col gusto della selezione, del posizionamento e degli accostamenti.
È in fondo una necessità – che nel collezionista diventa passione – «coestensiva nel tempo a Homo sapiens» scrive Pomian.
- Il collezionismo come istinto di base?
Sì, e al tempo stesso segno distintivo della specie umana e della sua evoluzione: una delle poche cose – con il linguaggio, la capacità di contare e la concezione del futuro – che ci differenzia nettamente dal regno animale.
- Ma collezionare non è anche – e forse soprattutto – un’abilità da apprendere, perfezionare e far evolvere?
Assolutamente.
Prenderei a riferimento il nuoto, come metro di paragone, se dovessi chiarire l’idea: nuotare – per quanto sulle prime sembri naturale – non è un atto spontaneo, ma invariabilmente mediato dall’acquisizione di una tecnica, che asseconda sì la natura, ma lo fa in un modo che non è immediato, e solo chi ha appreso la tecnica potrà poi trasferirla nello spazio degli automatismi, per nuotare “in modo spontaneo”; parliamo pur sempre di una spontaneità acquisita attraverso un duro apprendistato, la stessa spontaneità degli attori a cui il regista teatrale Stanislavskij imponeva di reggere dei libri sulla testa per abituarli a muoversi con naturalezza, cosicché attraverso l’innaturalezza acquisivano il contrario.
Allo stesso modo, per quanto la spinta a collezionare sia naturale e ben radicata nell’animo umano, e per quanto all’inizio sembri facile assecondarla, il processo collezionistico non è scritto nel DNA. Lo si impara sul campo, con l’esercizio e l’imitazione degli esempi migliori, per dare precisione e rigore ad impulsi che altrimenti, abbandonati a sé stessi, rischiano di risvegliare la nostra parte animalesca anziché far emergere e valorizzare il nostro lato più nobile.
Tra la pulsione a collezionare e una collezione a regola d’arte intercorrono anni di concentrazione, di continuità, di riflessione, di fatica sorda.
Quando Balzac afferma di credere «nell’intelligenza degli oggetti d’arte», quando dice che «essi riconoscono l’amatore, lo chiamano, gli fanno “pss-pss”»; quando il drammaturgo inglese Edward Knoblock sostiene che il collezionista «riesce a guardare un negozio di antichità dall’altra parte della strada, e notare i pezzi autentici che “lo chiamano ad alta voce” tra mezzo il ciarpame e le imitazioni», e parla della soddisfazione nel «redimere un oggetto in tutta la sua purezza dalla contaminazione di una compagnia bassa e degradante»; tutte le volte che si guarda un oggetto e si intuisce che deve essere nostro, tutte le volte che nel giro di pochi secondi si realizza una sintesi tra le pulsioni del cuore e i diktat della ragione, tutte le volte che ciò accade è perché c’è dietro una conoscenza, una preparazione, un’esperienza – e, sì, anche un pizzico di fortuna – caratteristiche dell’apice di un percorso iniziato molto tempo prima.
- E allora – per tornare là dove ci eravamo ripromessi di partire – quando, dove e come è iniziato il suo percorso collezionistico?
È una storia curiosa, singolare, contro tutte le probabilità.
- Come lo è spesso l’intera vita di un collezionista. La ascolto.
Mio nonno aveva tredici sorelle. Sì, ha capito bene: tredici sorelle, tredici. E sa perché ne aveva proprio tredici e non – per dire – dodici o quattordici?
- Fatico a immaginarlo.
Perché mio nonno era il figlio più piccolo, l’ultimo arrivato.
- Allora intuisco: il bisnonno voleva un maschio a ogni costo, e non si sarebbe fermato finché la bisnonna non ne avesse partorito uno.
Precisamente.
- Certo che tredici femmine di seguito assomigliano a una sfilza di “rossi” alla roulette. Quale sarebbe la probabilità?
Lo 0.01%, se ammettiamo – come nella roulette – che maschio e femmina abbiano le stesse chance a ogni giro. Però vai a sapere quali siano le reali dinamiche della genetica. A ogni modo questo è solo l’inizio, la parte curiosa viene dopo.
- Cosa può essere accaduto di più curioso di 13 figlie una dietro l’altra?
Cosa non è accaduto: nessuna delle sorelle si sposò né ebbe figli; ognuna aveva la compagnia delle altre, e tanto bastava a tutte, per cui nessuna sentì mai il bisogno di allargare la propria sfera affettiva; solo mio nonno si sposò, ed ebbe cinque figli, tra cui mia madre, la terzogenita.
- Qui salta davvero ogni calcolo probabilistico.
Però rimangono i conteggi aritmetici: man mano che ognuna delle “zie” – così le chiamava mia madre – lasciava questo mondo, le rimanenti si spartivano la sua eredità, e questa eredità cresceva a ogni dipartita e si riallocava su un numero progressivamente minore di persone.
L’ultima “zia” – mio nonno era già deceduto – si ritrovò con un patrimonio notevole, e quando anche lei si recò nel mondo dei più, ecco che la linea ereditaria passò a mia madre e ai suoi quattro fratelli.
- Fu come vincere al superenalotto, se posso permettermi.
Sì e no. E non tanto perché l’eredità andava comunque divisa per cinque, quanto per gli elementi da cui era costituita. C’era sì del denaro, e mia madre ne usò buona parte per comprare una “Scavolini” – la cucina alla moda, “la più amata degli italiani” come recitava la pubblicità dell’epoca – ma già da qui si capisce che il punto forte del lascito non erano i contanti.
- Ci saranno stati anche degli immobili, ipotizzo.
Immobili e… mobili, tanti mobili, un mobilio pregiato, d’epoca, che invase la nostra casa dalla mattina alla sera e gli donò un aspetto vintage e demodé.
Avevo dodici anni, e per un ragazzino di quella età, a quell’epoca – parliamo della metà degli anni ’80, senza i-Phone, senza internet, senza neppure un computer – frugare tra i cassetti di tutta quella mobilia era la cosa più naturale al mondo.
Ci trovai cose che sembravano provenire da un altro mondo, oggetti che – alla lettera – profumavano d’antico. Sbucarono fuori anche decine di lettere e cartoline affrancate con i valori del Regno d’Italia, un piccolo archivio di famiglia, se così posso dire. Ne rimasi folgorato.
Ricominciai a rovistare, non più con semplice curiosità, ma con vivo e crescente interesse, anche perché quei cassetti sembravano magici, una fonte inesauribile di sorprese e ritrovamenti: quando credevo di averli esplorati in lungo e largo, di averli ormai saccheggiati, ecco che cercando un po’ meglio, andando un po’ più a fondo, sempre qualcos’altro usciva fuori, un’altra lettera, un’altra cartolina, un altro documento.
Con un’intraprendenza deplorevole, mi premurai di staccare tutti quei francobolli dai loro supporti e li ordinai su un quaderno trasformato alla bell’è meglio in un album.
Quel traffichio non sfuggì a mia madre, che s’incuriosì nel vedere così tanta frenesia in un ragazzino tendenzialmente svogliato. Quando gli mostrai la ragione della mia iperattività, ne ebbi in risposta un gran sospiro. «Ah, i francobolli! Pure tu hai perso la testa per questi rettangoli colorati, come Francesco, Nello e Pippo!».
- I fratelli di sua madre, immagino: cioè i suoi zii.
Esatto. Consultammo uno di loro – quello che sapevamo ancora interessato a collezionare – per mostrargli il mio piccolo, grande ritrovamento. Non c’era nulla di particolare valore economico, erano tutte cose piuttosto comuni, ma ancora ricordo la smorfia di disappunto di mio zio, quando gli dissi di aver rimosso i francobolli dalle lettere.
Da quel momento iniziai a collezionare come poteva collezionare un dodicenne degli anni ’80 del secolo scorso: staccando i francobolli dalla corrispondenza dei miei genitori – ebbene sì, il vizio impiegò un po’ a passarmi – e da quella di parenti e amici. Ogni volta che entravo in casa di qualcuno, chiunque fosse, e con molto poco tatto, la mia domanda era invariabilmente la stessa: mi fate vedere le lettere che vi sono arrivate?
Mio zio Pippo si sposò e festeggiò con un viaggio intorno al mondo. Tornò carico di francobolli di ogni paese, per la mia felicità. Mia nonna mi regalò due belle serie, una del Vaticano, l’altra di San Marino. Zio Francesco mi congedava sempre con qualche pezzo, ogni volta che gli facevo visita. Mia madre mi comprava ogni mese le riviste Il Collezionista e Cronaca Filatelica, letture che capivo poco ma mi entusiasmavano tanto.
La mia vita da collezionista procedeva a meraviglia, tanto più che il virus filatelico si era diffuso a pressoché tutti i miei compagni di classe.
- «La fascinazione dei francobolli» – scrive Calvino – «nasce sempre nell’infanzia: è mossa insieme dalla passione per l’esotismo e da quella per la sistematicità delle serie».
È una sintesi fulminante della prima fase del processo collezionistico: vi si scorgono il sogno e la razionalità, la fantasia e la voglia di ordinare il reale, sfuggendo all’informe.
E introduce bene anche le fasi successive: l’aver cura di un mondo attraverso le cose, sino alla sensazione di conservare il tempo, di bloccarlo, la collezione come proiezione del desiderio di fissare una serie di momenti di sé, del proprio mondo interiore, come in un diario.
- La dimensione infantile rimane invariabilmente presente in ogni collezionista, non trova?
Sì, ma non vorrei che dalle sue parole trapelasse – anche solo involontariamente – un giudizio di valore negativo. L’infanzia è in fondo ciò che meglio approssima la genuinità della vita, col suo corredo di sogni e fantasie, e l’acquisto di un oggetto da collezione interviene spesso a colmare l’insufficienza fantastica della vita ordinaria, così come la collezione realizza sì un sogno, ma come esperienza compatibile col resto del mondo, per appagare un desiderio infantile di grandezza.
- «Gli incanti d’un album di francobolli» – per rimanere su Calvino – «li può intendere solo chi li ha vissuti nell’infanzia». Poi però l’infanzia passa, e cosa ne è allora dell’infatuazione iniziale? Permane invariata? Oppure oscilla tra il disincanto e un interesse più consapevole, entrambi tipici dell’età adulta? O magari entra “in sonno”, per risvegliarsi all’improvviso e prendere una forza travolgente?
Presumo che la mia esperienza sia la stessa di tanti altri: si inizia da ragazzini, con una folgorazione improvvisa dai contenuti mistici – e che pure affonda le sue radici in istinti primordiali – e si prosegue sulla scia del furore sino alla maggiore età o giù di lì. Personalmente ho mantenuto vivo l’interesse per i francobolli sino al primo di università. Poi sono subentrate “le cose della vita”, e il mondo della mia adolescenza si è ecclissato con tutto ciò che ne aveva fatto parte, francobolli inclusi.
Era il 2012, e fu un elemento apparentemente casuale a far riemergere la mia Atlantide filatelica.
- Perché dice “apparentemente”?
Perché gran parte delle cose della vita sembrano casuali, fortuite, e tuttavia si rivelano spesso decisive per orientare la nostra esistenza. Ma è solo apparenza, appunto.
Il mondo là fuori è una sorgente infinita di stimoli, di sollecitazioni, di pungoli. Contano però gli stati dell’anima – emotivi, sentimentali, intellettivi, culturali – conta quel che si ha dentro e su cui quei pungoli vanno a insistere: l’Universo non può farti nulla, non può colpirti – nel bene o nel male – se tu non gliene offri l’occasione.
- Come a dire – se ben intendo – che non potrà mai germogliare nulla, se non si portano dentro determinati semi; e per converso, se quei semi ci sono, allora è solo questione di tempo, ché prima o poi arriverà l’occasione per farli sbocciare.
Sì, corretto.
- E quale fu questo evento, nel suo caso?
Una promozione sul lavoro… arrivata in ritardo.
- Una promozione tardiva?
Ci furono dei ritardi nello svolgimento del concorso interno per il passaggio da coadiutore a funzionario, nell’istituzione in cui lavoro: si sarebbe dovuto concludere entro il 2011, ma slittò fino a luglio del 2012.
L’azione sindacale obbligò l’Amministrazione a decretare la retroattività della promozione: la qualifica di funzionario, fattualmente acquisita a luglio, fu formalmente riconosciuta da gennaio – come se il concorso si fosse concluso entro il 2011, come da programma – e la busta paga di agosto accolse in un sol colpo tutte le maggiorazioni stipendiali di un semestre legate al grado più elevato.
Era un bel tesoretto.
- La cui destinazione – a questo punto – è facile immaginare. Mi perdoni la confidenza – e non si ponga scrupoli a bloccarmi, se la ritiene eccessiva – ma con una famiglia e dei figli, con degli impegni oggettivamente prioritari, non ha pensato che era meglio risparmiare quel denaro, metterlo da parte?
Perché mai un individuo che non si trovi rinchiuso un manicomio, che non sia completamente folle, dovrebbe desiderare di tenere il suo denaro in banca?
- Prego?
Non sono parole mie, ma del famoso economista americano John Maynard Keynes. È lui che lo domanda.
- Fatico a seguire la linea d’argomentazione, non me ne voglia.
Lei mi chiede se ho pensato a risparmiare quel denaro, a metterlo da parte, e a me risuonano in testa le strofe di una delle tante belle canzoni di Guccini: coi soldi risparmiati, un po’ perché non si sa mai, un po’ per abitudine, e son sempre pronti i guai.
- Mi spiace, ma non riesco a starle dietro.
Più passa il tempo, più sviluppiamo la tendenza a mitizzare il passato e a vivere nel futuro, a ondeggiare tra la depressione per i bei giorni ormai andati e l’angoscia di non sapere cosa ci riserverà il domani.
Possiamo far poco per richiamare a noi il passato – collezionare, ad esempio, per chi lo sa fare – ma le incertezze sul futuro ci illudiamo tutti di addomesticarle col denaro, che al futuro è legato a doppio filo: il possesso del denaro calma i nervi, tranquillizza, perciò tendiamo ad accumularlo, perché sembra la miglior risposta a tutti i “non si sa mai” della vita.
Ma una persona in pace con sé stessa – emotivamente stabile, con i nervi a posto, che non si trovi in un manicomio – non ha bisogno di alcun calmante. Ricerca piuttosto le sensazioni della giovinezza, sepolte sotto una coltre di aridità e di malinteso senso di responsabilità.
- Converrà che è un punto di vista elitario, aristocratico.
Sono avverso ai risparmi, se è questo che intende, e da anni vivo ormai giorno per giorno, senza preoccuparmi troppo dell’avvenire.
Sono nato in una famiglia ordinaria – papà impiegato pubblico, mamma assistente sociale – e probabilmente morirò povero.
Nel frattempo, il denaro che guadano lo prodigo a tutti, e, sì, mi sento un aristocratico circondato da tanti ricchissimi plebei.
- Non insisto, anche perché non siamo qui per giudicare, ma per capire. E dunque – nel merito – in quali francobolli prese forma quel tesoretto?
Ammetto di aver vagabondato a lungo, di aver girato a vuoto per troppo tempo, di aver commesso errori – anche gravi – di cui ancora oggi pago le conseguenze, in termini di pezzi perduti.
- Non sembra – per come la presenta – una situazione così diversa da quella vissuta da un dodicenne, al netto della diversa scala di spesa.
Non lo era, in effetti. Avevo tante idee, forse troppe, e tutte ben confuse, proprio come accadrebbe a un ragazzino ai suoi inizi.
- Qual è stato il punto di svolta? Perché ci sarà pur stato un punto di svolta, se ora siamo qui a conversare.
L’incontro con l’Ingegner Giacomo Avanzo: questo straordinario personaggio del mondo della filatelia – mercante, collezionista, editore, perito – ha rivoluzionato il mio modo di vedere e sentire le cose, di percepire la realtà; mi ha indicato la migliore strada da battere, aiutandomi a percorrerla, passo dopo passo, con professionalità tecnica, correttezza commerciale e straordinaria disponibilità umana.
“Al di qua del Faro” non sarebbe mai nata, senza il supporto, la consulenza, l’aiuto – e mi lasci dire l’amicizia – di Giacomo Avanzo.
Nei miei rapporti con l’Ingegner Avanzo – più semplicemente Giacomo – ho capito che un collezionista non deve acquistare degli oggetti, ma anzitutto impossessarsi di un mercante in tutta la sua persona.
- Lei sta implicitamente rivendicando l’appartenenza a una precisa scuola filatelica, allo stile di Renato Mondolfo mutuato ed esaltato dall’Ingegner Avanzo: amare solo pochi pezzi, di qualità assoluta.
Gli oggetti da collezione «si offrono allo sguardo» – richiamando Pomian – perciò l’intero castello crolla, se l’occhio non è appagato.
- Ma questa pretesa di qualità non rischia di degenerare un’istanza tirannica, sino a rendere il collezionismo un gioco truccato? Uno psicologo avrebbe gioco facile nell’interpretare il miraggio della qualità assoluta come una protezione magica rispetto ad angosce profonde: l’oggetto perfetto come specchio ingannatore di una perfezione umana perduta, o meglio, mai posseduta.
Non nego che vi sia una classe di individui – anche piuttosto ampia – per cui la diagnosi è corretta.
“Feticcio” è del resto una parola-chiave del collezionismo, al punto che la psicologa freudiana Francesca Molfino ne ha voluto seguire le migrazioni di significato – dalle teorie sule religioni alle psicopatologie sessuali – per ricostruire le dimensioni della mentalità dei collezionisti, trovandovi «un concetto capace di connetterle tutte».
Quel che però vorrei ripristinare è la differenza tra patologia e fisiologia: la bellezza non è solo estetica, non è una banale parvenza rassicurante o un’adescatrice di coscienze; la bellezza è una necessità epistemologica.
- Addirittura!
Sì, una necessità epistemologica: perché è dal contatto con la bellezza che nascono la curiosità e l’interesse per ciò che si può trovare dietro l’oggetto; è dal coinvolgimento estetico che si sviluppa la passione per la ricerca; è il bello a fornire un sostegno all’esperienza da cui originano quelle reazioni emotive – lo stupore, la meraviglia – che scatenano e sostengono la voglia di conoscere.
- Così però si chiudono per sempre molte porte, si smazzano via numerose possibilità di ampliare la propria collezione.
Una collezione non è “pregiata” perché abbondante, e si potrebbe anzi congetturare che tanto più una collezione è abbondante quanto più rischia di riunire oggetti “poveri”.
- Potrei ribattere – non senza ragioni – che è sin troppo facile operare così, quando si dispone dei mezzi finanziari necessari a sostenere il ragionamento di fondo.
Lei dice? Allora le propongo un gioco, una simulazione, un esperimento mentale.
- D’accordo: giochiamo pure.
Io le metto idealmente a disposizione – in un sol colpo – tutto il denaro che è mi è servito per costruire “Al di qua del Faro”, con un ovvio vincolo di destinazione: può – deve – utilizzarlo solo per costruire la sua collezione.
Cosa accadrebbe, secondo lei?
- Non saprei dire, così su due piedi.
Allora azzardo io un’ipotesi, una congettura, che forse sarà smentita nel suo caso, ma di sicuro tiene in generale, per la maggioranza dei collezionisti: lei – o chi per lei – inizierebbe a vedere “meraviglie” ovunque, finirebbe con l’assecondare ogni impulso perché “tanto può permetterselo”. Per dirlo in tre parole “sperpererebbe il suo denaro”, e per colmo d’impostura lo sperpero sarebbe tanto più drammatico quanto maggiore era la somma a disposizione.
Quando si parla dei mezzi a disposizione per formare una collezione, quando si giudica il risultato collezionistico in rapporto alle potenzialità economiche, si presume – con imperdonabile leggerezza – che la disponibilità di denaro porti con sé equilibrio e buon gusto, chiarezza di idee e capacità valutative.
A me – all’osservazione empirica – sembra vero il contrario: il denaro disorienta e confonde, perché dà sì potenza, ma non fornisce alcuno strumento per governarla, e la potenza è nulla senza controllo – recitava una vecchia pubblicità – e qui può rivelarsi persino distruttiva.
- Il denaro – nella sua interpretazione – sarebbe quindi solo un fattore di scala: chi ha cattivo gusto metterà su un museo di mostri o una piccola bottega degli orrori, in funzione delle sue maggiori o minori disponibilità economiche; chi ha buon gusto edificherà capolavori – grandiosi o in miniatura, in proporzione alle sue finanze – ma comunque capolavori; chi non ha gusto sarà sprovvisto di un’ancoraggio, oscillerà tra l’Orsa Maggiore e la Fossa delle Marianne, e potrebbe esibire autentiche meraviglie accanto ad altrettanti freak. Dico bene?
È una buona sintesi, sì.
Bisogna saperne davvero poco su come girano le cose della vita, per rammaricarsi di non avere il conto in banca di Bernardo Naddei. La più parte dei collezionisti dovrebbe piuttosto addolorarsi di non possedere la sua eleganza, la sua finezza, il suo stile, la sua classe. Ma queste cose non sono precluse a nessuno – qualunque sia la condizione economica e l’estrazione sociale – per quel minimo che siano desiderate, per quel poco che le si voglia acquisire.
È una sfortuna non essere Bernardo Naddei – non avere il suo gusto sopraffino, intendo – e perciò è una gran fortuna per la più parte di noi – persone di gusti modesti – avere uno stringente vincolo di bilancio, che fa da guardiano contro quelle scelleratezze a cui finiremmo per abbandonarci, avendo denaro a sufficienza.
Quelli che rimangono – i collezionisti di buon gusto, con un vincolo di bilancio – devono imparare a trasformare i vincoli in opportunità.
- Non me ne voglia, ma è una frase inflazionata.
Lo è diventata a furia di ripeterla meccanicamente, senza discernimento, ma al fondo esprime ancora un concetto fondamentale.
- E quale sarebbe?
Se non disponiamo della potenza di fuoco di un Bernardo Naddei, proviamo allora a trasformare questa realtà di fatto – che suona come un vincolo, una limitazione – in uno stato che ne riveli la sua natura duale di opportunità.
Noi non possiamo comprare semplicemente quel che ci attira, il nostro criterio selettivo non può essere il banale “mi piace”, perché non abbiamo risorse sufficienti per abbandonarci a una simile sciatteria, perché esauriremmo in paio di mesi il budget filatelico di una vita, se iniziassimo a comprare tutto quel che ci piace .
Noi dobbiamo scavare a fondo, senza pause, sino a toccare la carne viva, a bagnarci col nostro stesso sangue, sino a trovare il cuore pulsante della passione. Il nostro criterio selettivo deve essere evoluto e sofisticato: “lo sento mio, mi scorre nelle vene, è una parte di me, un prolungamento della mia persona”.
Il vincolo si è così trasformato in un’opportunità, in una straordinaria possibilità di presa di consapevolezza, di crescita sotto ogni profilo.
- Non sembra una predisposizione d’animo immediata.
Serve lavorarci sopra, e pure parecchio, però cambia tutto, quando si entra in quest’ordine di idee: il mondo circostante sarà sempre lo stesso, ma noi lo vivremo in maniera totalmente diversa.
Scopriremo che certi oggetti battono a vuoto nel nostro animo, pur rimanendo pregevoli in sé. Non è – attenzione! – l’atteggiamento gretto e invidioso di chi disprezza quel che non può avere. È la linea di condotta di chi sa riconoscere, tra ciò che non può avere, quel che è realmente essenziale al suo piacere e quel che invece è uno tra i tanti oggetti che piacciono e basta.
Continueranno a esserci – ovviamente – oggetti essenziali al nostro piacere e per noi inarrivabili, ma scopriremo che sono veramente pochi, molti meno di quanti ne vedevamo all’inizio con un’analisi sommaria, e sicuramente una frazione così trascurabile da non permettergli di influire seriamente sul nostro stato d’animo di collezionisti.
Dico semplicemente una cosa che tutti sappiamo, ma che spesso dimentichiamo: gli oggetti del desiderio di un collezionista non sono on-demand, non lo guardano ammiccanti dalla vetrina di un negozio, o dallo schermo di un pc, come le troie di un bordello.
Dico – anzi ripeto, con Alberto Bolaffi – che «se una persona non ha un buon equilibrio può combinare disastri», e aggiungo che aver un buon equilibrio è un obiettivo sfidante, in un mondo che più avanti e meno sa aspettare, che pretende “tutto e subito”.
E comunque, sì, non si arriva alla pagina della “Trinacria” di “Al di qua del Faro”, senza sapere ciò che si sta facendo, senza consapevolezza del punto di approdo, in tre parole “senza saper aspettare”.
- Elogio dell’attesa nell’era di WhatsApp è un bel brano dello scrittore e critico letterario Marco Belpoliti – non a caso un cultore del collezionismo – proposto fra le tracce dell’esame di maturità del 2023. Gliene leggo un passo, visto che è venuto fuori l’argomento. «Non sappiamo più attendere. Tutto è diventato istantaneo, in “tempo reale”, come si è cominciato a dire da qualche anno. La parola chiave è: “Simultaneo”. Scrivo una email e attendo la risposta immediata. Se non arriva m’infastidisco: perché non risponde? Lo scambio epistolare in passato era il luogo del tempo differito. Le buste andavano e arrivavano a ritmi lenti. Per non dire poi dei sistemi di messaggi istantanei cui ricorriamo: WhatsApp. Botta e risposta. Eppure tutto intorno a noi sembra segnato dall’attesa: la gestazione, l’adolescenza, l’età adulta. C’è un tempo per ogni cosa, e non è mai un tempo immediato. Aspettiamo nelle stazioni, negli aeroporti, agli sportelli, sia quelli reali che virtuali. Attendiamo sempre, eppure non lo sappiamo più fare. Come minimo ci innervosiamo. L’attesa provoca persino rancore. Pensiamo: non si può fare più velocemente?».
L’attesa è un tempo prezioso e ora minacciato.
Durante l’attesa ci si prepara, si riflette, si sogna, si sviluppa la pazienza e si allargano le prospettive, si impara a conoscere meglio sè stessi e a costruire relazioni più salde con gli altri.
La frenesia del “tempo reale” spinge per contro verso gratificazioni immediate, che devono essere rinnovate di continuo e a dosi crescenti, per preservare la stessa sensazione di benessere effimero.
- Qual è secondo lei il risvolto più problematico del “tempo reale”, di questa crescente insofferenza verso l’attesa?
L’erosione del desiderio, la sua mortificazione, il vederlo regredire allo stadio di pulsione, e di conseguenza l’accentuarsi dell’impropria identificazione del desiderio col capriccio, la fatica a interiorizzarne la distinzione.
- Vuol provare lei a marcare il confine?
Quando parliamo desiderio – ogni volta che compiamo una scelta che implica il desiderio – dovremmo sentire che ne va del nostro destino, di tutta la nostra esistenza, che la scelta non riguarda cose e oggetti, ma coinvolge idee e motivazioni interiori, che la preferenza accordata a un oggetto è il riflesso della nostra capacità di percepire le differenze tra le opzioni in gioco.
Emil George Bühler lo ha espresso in modo definitivo: «I quadri sono parte di me: se ne vendessi uno avrei la sensazione di pentirmi di una mia scelta, di cambiare i miei gusti o di tradire me stesso».
Oggi, per contro, siamo incoraggiati a vestire i panni – comunque dismessi – del turbo-consumatore, in una società appiattita sulla libertà di avere e fare tutto quel che vuole, ma senza più desideri, e così sperimentiamo di continuo l’aleatorietà tipica di tutte le mistificazioni del desiderio, e da cui il desiderio andrebbe dissociato, per riscoprirne ciò che dà senso e profondità alla vita, o almeno che non la dissipa, non la disperde.
- E, in concreto, da quale punto dovrebbe ripartire la riscoperta del desiderio?
Dalla riaffermazione del senso del limite: la legge, la regola, il limite non sono un ostacolo al desiderio, ma il suo presupposto; offrono una protezione contro tutto ciò che a ogni momento minaccia di fagocitarlo.
Non può esserci alcun discorso educativo sul desiderio, se non attraverso l’esperienza formativa del limite.
La psicanalisi conforta: formule del tipo “perché non farlo?”, “perché rinunciare?”, “perché limitarmi?” continuano a essere le più sicure indicazioni di perversione, per quanto l’epoca attuale possa irridere all’esperienza del limite e sia in difficoltà a rispondere a queste domande.
- Al fondo lei esprime un concetto semplice, se riportato al tema della nostra conversazione: essere bravi collezionisti significa assecondare la propria passione governandola a ogni momento, per non ritrovarsi in una spirale di acquisti compulsivi. E tuttavia anche il più genuino desiderare fronteggia per sua natura l’infinità: ogni oggetto – nella logica della collezione – ne fa desiderare un altro, induce un fenomeno di magnetizzazione.
Il desiderio è per definizione il desiderio di qualcos’altro: l’oggetto che conta di più è costantemente altrove, lontano dalla propria collezione; la soddisfazione e la gioia per ciò che si possiede, per quanto grandi, non sono commensurabili al dolore per ciò che manca; e l’interesse non è mai così vivo come nel momento in cui ancora non si possiede l’oggetto, rispetto a quando entra in collezione, quando il sottile piacere del possesso è stato raggiunto e cede il passo al desiderio della prossima acquisizione.
Non c’è soluzione alla vertigine dell’infinità, perché non c’è via d’uscita ai processi di progressus in infinitum o di regressus in infinitum, se non rompendo il meccanismo.
- Quale potrebbe essere un punto di rottura, da considerare acquisito?
Che il sogno non è avere una collezione completa, ma fronteggiare una collezione senza fine, che non contempli mai un punto di arrivo, una collezione per la quale vi sia sempre un altro oggetto da cercare, da aggiungere, una collezione in cui non venga mai a mancare una casella vuota per quante numerose siano state le acquisizioni.
Serve coltivare un piacere per lo spazio vuoto – un amor vacui – rispetto al quale lo spazio pieno ci consola e ci incoraggia, ci offre una solida base per continuare la ricerca.
- Volendo continuare a tracciare i confini di un collezionismo evoluto, pienamente consapevole, a dare indicare pratiche su come procedere nel proprio collezionare, viene in mente un ammonimento messo in bocca alternativamente a Emilio Diena e a suo nipote Enzo Diena: «prima i libri, poi i francobolli, infine le lettere».
Mah! Devo ancora trovarlo un collezionista che ha iniziato a collezionare… leggendo libri.
Voglio vedere chi ha iniziato una collezione di “Modena” solo dopo essersi sciroppato la sequenza serrata di decreti, regolamenti postali e atti amministrativi dell’epoca, riportata nell’opera di Emilio Diena sui francobolli estensi.
I libri vengono dopo, nel naturale corso delle cose, in risposta a esigenze conoscitive avvertite dopo aver iniziato a collezionare, in risposta a dubbi che solo la pratica sul campo può far sorgere e percepire come significativi.
Il precetto dei Diena è una razionalizzazione a posteriori di un processo che segue l’ordine inverso. Rimane però un’indicazione di metodo da aver presente, da approssimare al meglio, anche se poi la pratica se ne discosterà in misura più o meno accentuata.
- Secondo lei come si può mediare – se si può – tra la cronologia degli eventi e la gerarchia ideale? Voglio dire: c’è un oggetto “terzo” tra il libro e il francobollo, che getti un ponte tra la propedeutica dello studio e il desiderio dell’acquisto?
Ci sono dei “libri” particolari, i primi con cui ogni collezionista entra spontaneamente in contatto: i cataloghi del passato.
- I cataloghi di vendita?
Sì.
Il catalogo di vendita nasce come strumento commerciale – “per vendere”, sebbene un oggetto sui generis come un francobollo antico – ma finisce con l’assolvere una cruciale funzione informativa e addirittura pedagogica.
Il catalogo di vendita… cataloga: raccoglie, censisce, registra, descrive gli oggetti del nostro desiderio; è la nostra finestra sulla realtà, ci dice cosa possiamo trovare realmente in quel mondo in cui abbiamo deciso di avventurarci.
Senza i cataloghi delle vendite passate non si parte, o meglio, è rischioso partire.
- «Prima i cataloghi del passato, poi i francobolli e le lettere», per dare un contenuto di realismo alla versione originaria, per toglierle il suo sapore accademico.
A me piace pensare ai francobolli degli Antichi Stati come agli abitanti di un’immaginifica città. Per fortuna in questa città non ci sono nascite, se non sporadiche, con ritrovamenti peraltro via via più improbabili, e non ci sono decessi, se non occasionali, per smarrimento o danneggiamento. La base collezionista è stabile, nel complesso.
Ricostruire l’anagrafe della città, censire i suoi abitanti – con i suoi pregi e difetti, i punti di forza e debolezza, rispetto alla collezione da costruire – è un passaggio obbligato se non si vuol trasformare ogni acquisto in un puro azzardo, in un rischio incalcolabile, da correre solo col discutibile coraggio dell’incoscienza.
E poi la vendita del passato può rivelarsi una musa ispiratrice, quando il catalogo è monopolizzato da una specifica collezione, che può offrire spunti di riflessione su come impostare e sviluppare la propria, svelare una via da percorrere con passi sicuri.
Noi iniziamo oggi qualcosa che altri hanno già fatto, più volte, tempo addietro. Dobbiamo conoscere, o avere almeno un’infarinatura, di quel che altri hanno realizzato prima di noi, per poi cominciare noi a edificare, per cogliere la logica, il senso, lo stile, i modi del collezionare, e la loro evoluzione nel tempo.
Se vogliamo dare alla filatelia lo status di una scienza – di un’attività fondata su un metodo e realizzata con una tecnica – nessuno può disinteressarsi alle opere di chi ci ha preceduto, al cammino delle idee, alle collezioni degli altri, proprio come nessuno scienziato si è mai mostrato indifferente verso le opere dei suoi predecessori.
Che sia un principe, un aristocratico o un borghese, uno scienziato o un artista, che sia timido, eccentrico o maniaco, il collezionista possiede invariabilmente una qualità preziosa: la capacità di meravigliarsi del mondo e dei suoi oggetti, di intuirne la potenza evocativa, di entusiasmarsi della loro scoperta, di creare nessi tra i grandi eventi della storia e le piccole cose che ne hanno definito il contesto storico, e di restituire così l’immagine più nitida e completa della cultura del passato.
Dalla sua continua capacità di meravigliarsi deriva – in modo naturale, inevitabile – una «dedizione positiva», una «ossessione benedetta, magnifica», un «amore romantico», per riprendere le parole di Russel W. Bellk, da Collecting in a Consumer Society.
- Cosa intende, esattamente?
Che i collezionisti sono gli uomini più passionali al mondo.
Quando Champfleury – nel suo Le violon de faïance – scrive che «Gardilanne diceva di non avere passioni» e invece era «più ardente del cacciatore, più inquieto di un innamorato al suo primo appuntamento, più schiavo di un ambizioso, più febbrile di un giocatore, con gli occhi accesi come un Corso che spii il nemico, brillanti co quanto quelli di un ghiottone davanti alla vetrine di Chever, la mani più convulse di un uomo la cui ultima carta rappresenta la fortuna o la rovina», quando insomma dice che «era la persona più passionale che si potesse immaginare», vuol dire esattamente questo: che possedeva tutte le passioni fuse in una sola, la passione più forte che vi sia, la passione per le collezioni.
- Rimane il fatto – a cui lei stesso accennava – che in ogni epoca si ritrovano differenti concezioni e modalità di collezionare, in risposta al gusto, alla sensibilità e alla cultura del tempo. Qual è lo stile contemporaneo, dal suo punto di vista?
È segnato da uno stretto legame con la pratica artistica: il collezionismo – oggi – è la modalità espressiva di quegli artisti che radunano oggetti con un forte potere simbolico grazie a un sapiente lavoro di accostamenti e rimandi, oggetti capaci di entrare in dialogo tra loro e con chi li osserva, oggetti da cui nascono degli insiemi organici, strutturati, che non tollerano mutilazioni, come avverrebbe con un opera d’arte.
- Il paragone è audace.
Meno di quanto sembri. Mi spingo anzi a dire che le collezioni di oggetti ordinari hanno più d’un insegnamento da impartire alle collezioni d’arte propriamente dette, per la loro superiore libertà, per una necessità più sentita e reale, per una maggiore vicinanza a un’espressione personale.
- Più che uno stile prevalente, il suo assomiglia a un collezionismo di frontiera di stampo antiquariale, alla «filatelia del XXI secolo», come l’ha definita l’Ingegner Avanzo.
Può darsi. Ma – se così è – annoto che il futuro ha un cuore antico.
- Quindi, di là delle mode e delle tendenze contingenti, ci sono anche dei punti fermi nel collezionismo, degli elementi invarianti nel tempo e nello spazio.
Sicuramente. Anzi, è proprio la deviazione dalla linea principale che talvolta permette di andare in profondità, di accrescere la consapevolezza, di delimitare meglio le scelte possibili.
- A chi si riferisce?
Penso ad Alfred Caspary, al suo gusto sopraffino in un’epoca in cui la rarità vantava un primato incontrastato, a scapito della qualità e della bellezza, come ci conferma l’esperienza del suo successore, Maurice Burrus, sprovvisto di un «suo gusto personale» nell’opinione di Alberto Diena.
E poi a Giulio Bolaffi, alla sua «vocazione in netta contrapposizione» alla «norma del commercio antiquariale», da cui è nato quel capolavoro filatelico che è la “Pedemonte”.
Ma penso pure a Saverio Imperato, giusto per non sembrare monocorde. Lo presero per pazzo quando iniziò a studiare le cosiddette “destinazioni”, quando si interrogava sulle spedizioni postali dagli Antichi Stati Italiani verso luoghi esotici, ma quegli studi furono cruciali per sistematizzare le tariffe fondamentali per tutte le destinazioni del mondo; e oggi le “destinazioni” sono tra i capitoli d’avanguardia del collezionismo filatelico, tra i più apprezzati in ambito internazionale, basta vedere il Gran Premio assegnato a Londra 2022 alla “Toscana” di Vittorio Morani.
Rimangono però punti isolati, personaggi così avanti rispetto al loro tempo da lasciare sgomenti: sembra che per loro sia stato possibile progettare la trama della propria collezione nel 2024 e iniziarne la costruzione già nella loro epoca.
- Ha citato la “Pedemonte”. Alberto Bolaffi, nel congedarla, sosteneva che le pagine di quel catalogo dimostravano «in modo eloquente come non mai che le collezioni non rappresentano solo un insieme di freddi, anche se sublimi oggetti, ma esprimono soprattutto le sequenze più vere e precise di quella che è stata la vita di ognuno di noi in termini di civiltà e buon gusto».
Sì, le collezioni custodiscono il gusto, la personalità e la civiltà dei loro creatori, perché mostrano ciò a cui ognuno di loro ha prestato attenzione nel costruirle, che poi è ciò a cui ha prestato attenzione nella vita.
E l’attenzione intellettuale – il prestare attenzione a una cosa e ignorarne un’altra – rappresenta per la vita interiore ciò che l’azione pratica è per la vita esteriore: dimmi a cosa presti attenzione e ti dirò chi sei.
- Se davvero gli oggetti portano addosso un frammento della nostra anima, o se addirittura ne rappresentano l’involucro – con un richiamo al divino, al trascendente – non c’è da meravigliarsi che cure e sollecitudini si moltiplicano, e le preoccupazioni crescano, quando se ne deve stabilire il destino in vista del “calar della sera”.
Il “calar della sera” sarebbe il momento dell’ inevitabile distacco dalla propria collezione?
Temo non vi siano linee direttrici generali, con cui fornire anche solo un orientamento sommario a tutti i collezionisti.
- Ma qualche ragionamento lo avrà pur fatto.
Le cose – scrive Borges nella poesia Las cosas – «dureranno più in là del nostro oblio; non sapranno mai che ce ne siamo andati», e sembra un invito a rimanervi accanto sino alla fine.
Allora, però, si insinua un’inquietudine – cosa ne sarà… dopo? – che suscita tormenti irrazionali.
Alcuni collezionisti arrivano a palesare la preoccupazione per il bruto realizzo economico: sanno quanto hanno speso per la collezione – a volte con una precisione maniacale che fa dubitare della loro vocazione, perché l’amore non misura ciò che dà, la passione non quantifica lo sforzo – e temono che persone inesperte, non introdotte nei meccanismi di un mercato ad alta complessità, possano darla via per due peperoni e un pugno di tabacco.
- Mi scusi, ma cosa c’è di irrazionale in una simile preoccupazione?
Che non ci riguarda, non ci tocca più, non ci colpisce, non ha alcuna influenza su di noi.
Quale che sia il nostro seguito – il cielo o gli inferi, nella tradizione cristiana; il ritorno in questo mondo, seguendo nelle filosofie orientali; diventare cibo per i vermi, per gli atei – qualunque cosa avvenga, il denaro non è più affare nostro, ma di chi rimane.
Sono convinto – o meglio: mi piace credere – che questa sciocca preoccupazione materiale sia solo la parte visibile, e più facilmente comunicabile, di un’angoscia tutta interiore: il timore di lasciare “orfani” gli oggetti, la prospettiva di una loro dispersione fredda, anonima, indifferente all’amore, alla fatica e alla pazienza con cui il collezionista li aveva radunati, legandoli tra loro.
Perché quel che preoccupa davvero il collezionista – intendo il vero collezionista – è mantenere intatto il vincolo spirituale con la sua collezione, «finch’io viva dopo morte», per rievocare l’ambizione di Isabella d’Este.
- E cosa si dovrebbe fare, in pratica?
Vendere prima di congedarsi, ché già in vita si sono in fondo avute ripetute esperienze di abbandono: cosa sono tutti pezzi persi, o le occasioni mai avute, se non i rintocchi anticipati dell’ultima campana, che mimano in forma attenuata il momento in cui si dovrà lasciare tutto?
- Vendere in prima persona, per poterlo fare alle proprie condizioni.
Che però non devono tanto essere di stampo economico, quanto sentimentale.
Il rientro del denaro speso – per non parlare dell’utopia dell’investimento o dell’affare – rimangono obiettivi estranei al vero collezionista, o quanto meno esogeni rispetto al più genuino collezionare, perché collezionare è un atto puramente passionale, senza alcuna genesi economica.
Serve rivolgersi a operatori adeguati al proprio stile, più che altro per veder rinnovata la gioia che ci ha dato l’acquisizione di ogni pezzo, per poterla scorgere nel nuovo acquisto di un collezionista col nostro stesso gusto.
Quando possibile – se possibile – ci si dovrebbe imporre per avere un catalogo d’asta dedicato esclusivamente alla propria collezione, affinché chiunque lo prenda in mano – in qualunque momento, in qualsiasi luogo – possa sentirci riecheggiare.
In rete è disponibile il racconto Il collezionista di tramonti, di Tomas Saulius Kondrotas, che dà la migliore prospettiva su tutta la faccenda: «quell’uomo, Grikonis, che aveva messo insieme la collezione era costantemente con me. Io lo conoscevo così come conosco me stesso. Sebbene fosse morto e sepolto, tra noi si stese un resistente filo d’oro. Molto più resistente di qualunque altro che mi legasse a chicchessia. Ricavavo informazioni su di lui da come aveva selezionato i tramonti, con quali colori, linee e stati d’animo… Fino ad allora non avevo mai immaginato che d’un uomo si può dire ciò che è dai tramonti che preferisce… Non c’erano tramonti casuali. Ognuno possedeva un significato, solo che bisognava saperlo cogliere… Il mondo acquistava per me nuove e mai viste profondità e dimensioni».
- In queste parole si rivela il desiderio tipico di ogni collezionista: lasciare un segno, un ricordo.
Attenzione, però.
Non si può ambire a lasciare un ricordo – un buon ricordo, che permanga e sia d’insegnamento e ispirazione per le generazioni future – se già nel presente non si avverte la sensazione di evolvere grazie alla collezione, di trasformarsi in una persona migliore per merito della collezione, e che collezionare stia rendendo la vita frizzante, vivace, segretamente godibile, florida di contatti, di sviluppi, di piacere.
Collezionare – alla fine dei giochi – è un pretesto per evadere, per comunicare, condividere, istruire e istruirsi, per vivere un’avventura che coinvolga tutta la propria persona, per affermare la propria identità con coraggio, farla evolvere e raffinarla.
- Prospetta una simbiosi tra collezione e collezionista che finirà con l’influenzare inevitabilmente tutta l’esistenza, fino a poterla addirittura riconfigurare, come accennava all’inizio.
Collezionare
è ricostruire la storia dell’oggetto e comprenderne l’evoluzione, e
quindi, sì, assieme alla collezione inizia di necessità anche una nuova vita:
si avvertono pian piano il bisogno e il piacere di
studiare l’epoca a cui appartengono gli oggetti, di individuare i
collegamenti con oggetti simili, di tracciare le derivazioni e le
influenze del
periodo storico sull’oggetto, e tutto ciò alimenta e ravviva la
relazione tra
il collezionista e la sua collezione, rinnova l’identità di entrambi.
Oggetto dopo oggetto, conoscenza dopo conoscenza, la
collezione si rivela un raffinato esercizio intellettuale, sino
a diventare un alter ego del collezionista: la collezione è fatta di oggetti, di entità
inanimate, che tuttavia esprimono una parte essenziale della
consapevole capacità di conoscere e comprendere; controllando,
classificando e manipolando il mondo esterno si conquista il proprio
mondo interiore, in un processo
che conduce all’equivalenza tra sentimenti, pensieri e cose, tra
l’inafferrabilità della vita e l’immobilità degli oggetti.
- Come riassumerebbe quindi la sua filosofia collezionistica?
Un atto di continuo innamoramento verso il senso delle cose, che attraggono e affascinano per il loro carico affettivo ed emozionale, più che per il sempre questionabile valore economico.
È questo il senso del mio collezionare: coltivare ricordi e passioni riunendo oggetti suscettibili di stimolare un senso di appartenenza, di mantenere vivi i sentimenti.
La mia filosofia – per esser chiari – è che un collezionista non compra oggetti, ma realizza sogni: l’acquisto rappresenta la materializzazione del sogno, e se un acquisto non rispecchia un sogno, allora si ha la dimostrazione esatta, precisa, di essere incappati in un acquisto sbagliato.
- La dimensione onirica è suggestiva, ma pone un problema già segnalato dall’arcivescovo Giovanni Della Casa nel suo famoso Galateo, al capitolo XII: «Male fanno ancora quelli che tratto tratto si pongono a recitare i sogni loro con tanta affezione e facendone sì gran meraviglia che è un isfinimento di cuore a sentirli; massimamente che costoro sono per lo più tali che perduta opera sarebbe lo ascoltare qualunque s’è la loro maggior prodezza, fatta eziandio quando vegghiarono. Non si dee adunque noiare altrui con sì vile materia come i sogni sono, spezialmente sciocchi, come l’uom gli fa generalmente».
Colgo il punto: lei dice – in sostanza, con Monsignor Della Casa – che i sogni sono per lo più sequenze destrutturate, che il problema non è il loro contenuto fantastico, ma la mancanza di una logica interna, di un congegno narrativo che produca storie raccontabili, recepibili anche da chi non la vive, da chi non sta sognano insieme al collezionista.
- Voglio dire: come si fa a trovare un legame in una serie di oggetti diversi uno dall’altro – non fosse altro per il gioco di semplici varianti – e quale percezione di un insieme in evoluzione guida la formazione di una collezione, distinguendola da un bric-à-brac? C’è un momento che rende un insieme di oggetti qualcosa di notabile, di cui andare fiero?
Il passo preliminare – ancorché parziale – è quel che si diceva all’inizio: la scissione dell’oggetto dalla sua funzione originaria, affinché possa entrare nel rapporto più stretto con oggetti simili, in un ordine appositamente creato – la collezione – in cui i pezzi diventano pensieri e sentimenti reificati, cose pensanti, suscettibili di donare un nuovo senso all’ambiente circostante, per poi comunicarlo al mondo.
Da questa base la collezione muove verso il recupero dei collegamenti geografici, storici, politici e sociali – in definitiva, culturali – che ogni pezzo può mostrare se riunito ad altri pezzi riconosciuti pertinenti o assimilabili, un “effetto riconoscimento” per così dire, per cui anche oggetti di valore modesto possono rivelarsi depositari di importanti verità, densi di significati, se collocati in una sequenza opportunamente configurata.
- Ma qual è allora l’unità minima? Se l’oggetto esiste a prescindere, e tuttavia è solo la serialità a conferirgli un senso, allora viene da dire che la collezione, seppur formalmente atomizzabile in singoli pezzi, è essa stessa una nuova unità, non solo su un’altra scala, ma proprio di un altro ordine.
Questo è ciò che intendevo, quando ho paragonato il collezionista ad un artista e la collezione a un’opera d’arte: si può andare avanti e indietro dalla singolarità alla serialità e viceversa, ma la collezione ha una sua unitarietà che non tollera mutilazioni.
- Preparazione culturale e sensibilità estetica sono i presupposti di una collezione di qualità, ma si può – con la propria cultura e sensibilità – avere in testa una collezione virtuale, senza avvertire la stretta necessità di realizzarla in pratica? Ci si può interessare agli oggetti – conoscerli, studiarli, descriverli – senza possederli?
No, assolutamente no: in tutte le storie d’amore arriva un momento in cui il desiderio esige il possesso, e per il collezionista – per il «vero collezionista» per dirlo con Walter Benjamin, senza alcuna remora – il possesso è «la più profonda relazione che in assoluto si possa avere con gli oggetti».
Il piacere del contatto visivo e fisico – e in senso lato erotizzato – con l’oggetto del desiderio è essenziale all’interno del rituale magico della collezione.
Ne troviamo la manifestazione più chiara e romantica nel diario di “un uomo ucciso da un sogno”, il protagonista del racconto La Capigliatura, di Maupassant. «Guardi un oggetto e a poco a poco ti seduce, ti incanta come il viso di una donna. Il suo fascino ti penetra, fascino strano che proviene dalla sua forma, dal suo colore, dalla sua fisionomia di cosa; e già lo ami, lo desideri, lo vuoi. Un bisogno di possesso si impadronisce di te, bisogno dapprima dolce, quasi timido, ma che cresce, diviene violento, irresistibile… Oh! Compiango chi non conosce la luna di miele del collezionista col gingillo appena comprato! Lo accarezziamo con l’occhio e con la mano come se fosse di carne; ogni momento gli ritorniamo vicino, ci pensiamo sempre, dovunque andiamo, qualunque cosa facciamo. Il suo caro ricordo ci segue per la strada, fra la gente, dappertutto; e quando rientriamo a casa, prima ancora di levarci i guanti e il cappello, andiamo a contemplarlo con la tenerezza di un’amante».
C’è poco da aggiungere: il collezionismo è per sua natura un tête-a-tête con le cose, presuppone una vicinanza fisica che appartiene alle persone dall’istinto tattile, che nel caso del collezionismo filatelico diventa ancor più sofisticato, uno sguardo che tocca senza sfiorare.
Mettiamola in negativo, se la declinazione privativa può aiutare a capire: cose ne rimane del collezionismo, senza la fatica della ricerca, il brivido dell’appropriazione, l’orgoglio e il sottile esibizionismo di chi può mostrare i propri tesori?
- Nel collezionismo, però, il possesso rimane un atto travagliato, al di fuori degli ordinari circuiti economici di compravendita. Lo osservava lei stesso: gli oggetti da collezione non sono disponibili su richiesta, il denaro è condizione necessaria ma largamente insufficiente per la loro acquisizione. Serve una ferma determinazione, che talvolta degenera in aggressività, scorrettezza e prepotenza. Sotto l’immagine dell’onorabilità, della rispettabilità e della legittima opulenza di una collezione possono celarsi atteggiamenti eticamente censurabili, se non autentiche disonestà.
Ogni collezionista vive sempre dei momenti di lotta in fase di acquisizione, e – se osservato da fuori – può dare in effetti l’impressione di una figura incline alla scaltrezza, all’influenza, al rilancio sottobanco, e se occorre alla sopraffazione o all’abuso, pur di far suo un oggetto concupito da più occhi.
Tutta la storia del collezionismo, volendo, si potrebbe esaminare e riscrivere da questa prospettiva.
- Vuole citare alcuni casi?
Isabella d’Este sarà pur stata una delle dame più raffinate del Rinascimento, ma si riconosceva da sé una «natura appetitosa», un «insaciabile desiderio di cose antique», una smania per cose rare et excellenti», che la spinsero per tutta la vita a bussare con insistenza alle porte dei collezionisti, ad approfittare del loro bisogno di denaro, a saccheggiare gli eredi, a tenere atteggiamenti di «rara improntitudine» pur di arrivare per prima, perché – diceva – «le cose ne sono più care quanto più presto le havemo».
Rodolfo II d’Asburgo si avvaleva di un esercito di informatori, artisti e ambasciatori sparsi per l’Europa, per alimentare la sua collezione; se qualche principe voleva entrare nelle sue grazie, riceveva la visita di un agente che sceglieva gli oggetti migliori, a un prezzo dettato dal potere dell’Imperatore, senza margini di contrattazione.
Storici di professione descrivono la Regina Cristina di Svezia come «la rapace intellettualoide del Nord», le attribuiscono atteggiamenti oltre «ogni aspettativa morale» e una «cupidigia conosciuta in tutta Europa».
- Ho la sensazione che la lista sia illimitata.
Illimitata forse no, ma di sicuro si può proseguire a lungo.
La testa di Re Carlo Stuart d’Inghilterra non aveva smesso di rotolare accanto ai piedi del boia, che la sua spettacolare collezione era già preda degli emissari di altri sovrani collezionisti.
Fu la collezione in mano a Francesco III d’Este – di cui il Re Augusto III di Polonia conservava «invidiosi ricordi» da quando l’aveva ammirata trent’anni prima – a salvare il Ducato di Modena dalla bancarotta.
E sorvolo sulle sin troppo note spoliazioni napoleoniche, che avrebbero poi ispirato in Hitler il progetto di un museo a cui affidare il ricordo di sé, da costruire con la complicità di una fitta rete di antiquari pronti a rastrellare le opere più belle e famose, pagando i collezionisti con visti di espatrio e il rilascio di familiari deportati.
Dal tempo dei Romani, e almeno fino alla Seconda Guerra Mondiale, la rapina è stata la pratica usuale dei potenti per formarsi una collezione – un atteggiamento in cui, antropologicamente, riecheggiano il bottino di guerra e l’umiliazione del vinto – ma la stessa aggressività, la stessa violenza, a si ritrova nel pensiero di letterati e filosofi.
«È la caccia ai capolavori! E ci si trova faccia a faccia con avversari che difendono la selvaggina! È una lotta di astuzie» fa dire Balzac al protagonista della sua opera Il cugino Pons. E ancora: «Un capolavoro nelle mani di un Normanno, di un Ebreo o di un Alverniate è, come nelle fiabe, una principessa prigioniera di un mago».
«Proprietà e possesso esigono una loro tattica» – scrive Walter Benjamin, nel saggio Disfo la mia biblioteca – «I collezionisti sono persone con un istinto tattico; secondo la loro esperienza, quando assaltano una città straniera, la più piccola bottega di un antiquario sta per un fortino e la più sperduta cartoleria per un posto nevralgico. Tante città mi si sono rivelate durante le mie marce a caccia di libri».
Un famoso libro sul collezionismo s’intitola Come la bestia e il cacciatore, e nella quarta di copertina si accenna alla «spietata brama del cacciatore in agguato sulla preda».
- La carrellata dei termini è auto-esplicativa: “caccia”, “avversari”, “difendere”, “selvaggina”, “lotta”, “astuzie”, “tattica”, “assaltare”, “fortino”, “posto nevralgico”, “marce”, “spietata brama”, “agguato”, “prede”. Sono tutte parole di stampo belligerante, conflittuale.
Sono parole che segnano la vita di un collezionista, che per sua natura è un possessivo, un amante del rischio e della competizione, un combattente dagli appetiti forti.
Definire “pulita” una collezione può effettivamente essere complesso, perché il giudizio va parametrato sul contesto sociale in cui la si è costruita, per decidere se accettare oggi ciò che valeva in quei momenti.
Spiace ammetterlo, ma ancora oggi manca una cultura sufficientemente solida, estesa e profonda che permetta di riconoscere la bontà di ciò che si possiede, soppesando gli oggetti con i modi con cui se n’è entrati in possesso.
- Sta delineando una figura del collezionista simile a un super-uomo, di là del senso comune del bene e del male. Viene da chiedersi sino a che punto il collezionista sia il protagonista della sua avventura e da quale punto diventa invece succube di un’ossessione, non più manipolatore di oggetti ma manipolato da una realtà che ha preso il sopravvento e da cui viene soggiogato.
Difficile a dirsi. Però è indubbio che gli oggetti di una collezione non sono mai inerti, privi di intenzione e inclinazione, di una loro voce.
Un collezionista può arrivare scoprire che la propria collezione ha preso a vivere autonomamente, che non fronteggia più un ragionato sistema di materie e forme, di opere e ricordi, ma deve misurarsi con un’entità dotata di propria volontà e persino di una sua capacità di discorso.
Penso che Marco Belpoliti volesse documentare questo tipo di esperienza – sicuramente sconcertante – quando scriveva che «la collezione è qualcosa che vive di vita propria, entità mossa da forze oscure e inconoscibili».
Però, volendola mettere in positivo, si può dire che serve imparare ad “ascoltare la collezione”, per vedere e capire meglio le sue forze costituenti, per renderle un po’ meno oscure, un po’ più conoscibili.
- Più proseguiamo in questa nostra conversazione, e più gli oggetti si personificano, prendono le sembianze di interlocutori
antropomorfi dotati di un’anima. Gli stessi rapporti che vi si instaurano sono descritti con parole e intonazioni tipiche delle relazioni umane.
C’è una certa enfasi nella sua similitudine, ma è una prima conclusione in cui mi rispecchio: chi possiede una collezione è come se avesse un mondo di amici sempre pronti a rispondere al suo richiamo, sempre disponibili al gioco, ad assecondare fantasie, a suscitare sensazioni piacevoli.
- Questi oggetti umanizzati di un mondo parallelo non rischiano di alterare le ordinarie relazioni sociali nel mondo reale?
Questo è il risvolto più delicato della storia: l’accettabilità sociale della propria passione.
Qualunque collezione – anche la più innocente – finisce prima o poi con l’assorbire una notevole quantità di tempo e denaro, senza peraltro che se ne intraveda la fine, perché collezionare – dicevamo – è un moto perpetuo, un processo senza un punto di arrivo.
Sorge quindi la necessità di giustificare agli altri – principalmente la propria famiglia, ma spesso anche a una cerchia più vasta – il senso di ciò in cui si è impegnati, perché si sente aleggiare la domanda – che lei stesso mi ha rivolto – se per quel tempo e quel denaro non vi siano usi alternativi più “produttivi”, o anche solo psicologicamente “più accettabili”, che in effetti sarà sempre possibile esibire.
Non se ne viene a capo, perché per un collezionista vale il principio opposto: l’unica spesa sensata è quella per la propria collezione, in nome della quale nessun sacrificio sembra troppo grande; perché solo gli oggetti della collezione sopravvivranno, laddove tutto il resto è destinato alla distruzione, alla dispersione, all’oblio; perché solo gli oggetti della collezione accarezzano l’anima, laddove tutto il resto sembra sovreccitarla inutilmente.
«Quando colleziono mi sento invulnerabile» diceva Mitchell Wolfson, e
credo sia chiaro quale stato d’animo volesse esprimere.
- C’è un fatto curioso. Finché sei bambino, i francobolli sono un gioco istruttivo e formativo – sulla storia, la geografia, l’arte, e persino sul valore denaro – anche per l’ordine mentale a cui abituano nel doverli organizzare in una collezione. Quando cresci, gli stessi francobolli si trasformano in una perdita di tempo, a meno che non se ne riesca a trarre un guadagno. Cos’è che genera questo ribaltamento percettivo, questo avvicendamento di sistemi valoriali, intorno a uno stesso fenomeno?
Per tradizione, per cultura, per condizionamento sociale, finché sei bambino puoi pure impiegare gran parte del tuo tempo in attività improduttive; ma quando cresci devi capire piuttosto in fretta che tutto ha uno scopo nella vita, e spesso è uno scopo economico, un continuo “dare” e “avere” il cui saldo deve rimanere positivo, altrimenti è segno inequivocabile che c’è qualcosa di sbagliato nel tuo pensare e agire.
Io vorrei invece innalzare un’ode a chi del collezionismo ha fatto la sua passione, a chi lo considera una parte fondamentale della propria vita anche se non gliene viene alcun vantaggio tangibile, al punto che se alla domanda “cos’è la collezione?” risponderebbe “è la mia vita”, perché incapace di immaginare la propria vita senza tutto questo.
Perché le nostre passioni – anche se non ci restituiscono nulla a livello materiale, e anzi, soprattutto se non lo fanno – sono comunque in grado di arricchirci di un’infinità di altre cose, magari non misurabili sulla scala prevalente nella società, e che tuttavia rimangono fondamentali, se non le più importanti, per il nostro equilibrio fisico ed emotivo.
- Sottrarsi a ciò che una comunità considera uno standard – alla “scala prevalente in società”, come la chiama lei – impone sempre un atto volitivo, che a sua volta presume un cambio radicale di prospettiva.
C’è un passaggio sottile da cogliere: collezionare è un’operazione diversa dall’accumulare denaro.
Nel denaro c’è sì potenza, ma solo uniformità, interscambiabilità, e quindi appiattimento. Il denaro è il regno dell’equivalenza, della più scialba uguaglianza. Due uomini con una banconota da 100 euro in mano ci appariranno indistinguibili, ma di quegli stessi uomini potremmo intravedere il gusto e la sensibilità attraverso la cravatta che hanno scelto di acquistare con quei 100 euro.
E nulla – come il collezionismo filatelico – rivela «le sequenze più vere in termini di civiltà e buon gusto», per riprendere le parole di Alberto Bolaffi che lei ricordava.
Quando l’oggetto è ridotto a un antico rettangolino di carta, e tu educhi l’occhio a riconoscere all’istante tutti i suoi dettagli, anche quelli infinitesimali, e a metterli in equilibrio tra loro in uno spazio così piccolo, quando ti accorgi che alcuni francobolli – per così dire – “cantano”, e che non ti serve la lente per apprezzarli a dovere – ché la lente la usi solo quando c’è una nota stonata nella sinfonia – allora puoi star certo che stai educando la tua sensibilità ai più alti livelli di raffinatezza possibili.
Il collezionismo filatelico riamane uno dei modi più sicuri per capire sé stessi e migliorarsi, perché nulla come collezionare francobolli ci dice ciò che siamo in essenza e in potenza, e la propria condotta va perciò improntata alla massima larghezza di mezzi e di vedute di cui si è capaci.
- Lei tiene giustamente la barra dritta sui francobolli, ma dal ’900 in poi il progresso tecnologico ha prodotto una quantità smisurata di oggetti, e il ventaglio delle collezioni possibili si è allargato a dismisura. Si è iniziato a collezionare – alla lettera – di tutto.
In realtà già i collezionisti medioevali riunivano, indifferentemente, autentiche opere d’arte e curiosità assurde.
Nella collezione del Duca di Berry – per dire – si trovavano delle corna di liocorno, l’anello di fidanzamento di San Giuseppe, noci di cocco, denti di balena e conchiglie dei Sette Mari.
Di fronte a collezioni di tremila oggetti, tra cui settecento quadri, un elefante imbalsamato, un’idra, un basilisco, un uovo trovato da un abate dentro un altro uovo, e la manna caduta durante una carestia, c’è da dubitare della purezza del gusto antico e del suo senso di distinzione tra bellezza, curiosità e arte.
- Vogliamo provare a recuperare queste distinzioni? Cos’è che rende un oggetto meritorio di essere collezionato?
Si può pensare che il punto di partenza sia l’interesse individuale per un’oggettistica specifica, per ciò a cui serviva, per il suo aspetto, le caratteristiche e particolarità che la differenziano dal resto, e quindi che la scelta sia autoreferenziale.
Ma se da un lato i gusti non si giudicano, dall’altro non è con i gusti che si giudica.
L’oggetto da collezione deve innanzitutto essere un testimone della propria epoca, ne deve emanare tutto lo spirito; deve poi corrispondere a requisiti di equilibrio e armonia, possedere un’architettura che lo renda un insieme razionale, qualunque sia la sua scala; deve avere un carattere, che gli conferisca singolarità o rarità; e deve infine riflettere una qualità di esecuzione, in ragione della ricchezza dei materiali impiegati o della finezza artigianale che gli ha dato vita.
- Potremmo quindi identificare e riassumere la collezionabilità nelle etichette “interesse storico”, “rarità”, “bellezza”.
Volendo si può aggiungere ciò che gli inglesi chiamano association value, un interesse più modesto e privato, come può esserlo per me il collezionare bicchierini da caffè o per mia suocera i ditali, e che pure, talvolta, finisce con l’avere la preminenza.
Qualunque sia la miscela tra questi elementi, in qualunque modo se ne voglia soppesare l’importanza, c’è però un punto che deve rimanere fermo e fuori discussione.
- Quale?
«Non c’è nessun oggetto di collezione che sia nato già a fini collezionistici» per riprendere l’ottima sintesi di Aberto Bolaffi, chiosata dalla precisazione – spesso omessa dalla citazione – che «in tal caso è una patacca».
- E con i francobolli come la mettiamo? Lei mi dice che la collezionabilità di un’oggetto presuppone la scissione da tutte le sue funzioni pratiche, il privarlo del suo valore d’uso per conferirgli un esclusivo valore d’amatore, ma i francobolli sono stati per oltre un secolo degli oggetti sia da usare (per pagare il servizio postale) sia da collezionare (per il proprio piacere). Ora fa sua la posizione di Bolaffi, per cui nessun oggetto deve nascere – essere concepito – con finalità collezionista, e però gran parte delle emissioni del ’900, per non parlare degli anni più recenti, sono ideate a uso degli album dei filatelici, per venire incontro alle aspettative dei collezionisti. Come la mettiamo, quindi?
La mettiamo che esiste una filatelia evoluta e consapevole, e un’altra infantile e ingenua, per quanto l’affermazione sia politicamente scorretta.
Volendo tagliare con l’accetta – sull’area italiana – si può dire che il collezionismo autentico e genuino finisce con i francobolli di Re Vittorio Emanuele II, o a voler essere larghi, con le “miste” tra Vittorio Emanuele II e Umberto I.
Quel che viene dopo è un vespaio di situazioni di complessa lettura e decifrazione. Possono pure esserci nicchie d’interesse – penso ad esempio ai francobolli di Fiume – ma per lo più si fronteggiano oggetti con un evidente “difetto di fabbrica”, “nati storti”, che si possono pure collezionare – e meglio sarebbe dire raccogliere – solo perché ognuno è libero di dedicarsi a ciò che vuole.
- Non mi dica che non ha mai subito il fascino del “Gronchi rosa”. Non le crederei.
E farebbe bene. Quale collezionista italiano non si è mai interessato a un francobollo simbolo della “Repubblica”?
Ragioniamo, pero. Si vedono invariabilmente sorrisetti di commiserazione, quando si dice di voler vendere la propria “Repubblica”, precisando che alla collezione mancano solo il “Gronchi rosa” e i “Cavallini”. Un pensiero abrasivo prende forma, e a volte viene persino manifestato, con un’affermazione magari sgarbata, ma veritiera: mancano gli unici due oggetti che dovevano esserci. Qualcosa non torna, evidentemente.
E lo stesso vale per i francobolli del Regno di Vittorio Emanuele III: ci sono pezzi di notevole valore economico – penso al francobollo da 1.75 lire “Parmeggiani” o al cosiddetto “Volo di ritorno” – ma cosa ci siamo ripetuti per tutta la nostra conversazione? Che l’oggetto singolo esiste solo nella forma, che il suo significato gli viene conferito dall’inserimento nella serialità della collezione. E dove sarebbe, qui, la serialità? Nell’ordinato e anonimo elenco di tutti i francobolli, di tutte le emissioni, di tutti gli anni?
Da ragazzino rimasi disturbato dai francobolli del Regno con la sovrastampa “IX Congresso Filatelico - Trieste 1922”, anche se non ne capivo il motivo. Oggi lo so dire: era la filatelia che cessava di essere una testimonianza storica, per iniziare ad avvitarsi su sé stessa, per diventare la filatelia a uso e consumo delle fissazioni dei filatelisti; la filatelia delle affrancature filateliche, degli annulli di favore, del “primo giorno d’uso” costruito a tavolino; la filatelia assecondata dagli errori di stampa, la filatelia delle iniziative per rilanciare la filatelia – l’emissione per i diciottenni – una filatelia puramente nominalistica, sradicata dal naturale terreno culturale del collezionismo.
Già negli anni ’30 del secolo scorso uno degli scrittori più in voga ironizzava sulla filatelia, attraverso le avventure dell’immaginaria Duchessa di Glottenburg, che per coprire i suoi lussi personali non aveva che da emettere una serie di francobolli commemorativi, sicura di incontrare i desiderata dei filatelici di tutto il mondo.
E – si badi – non era una boutade, una spiritosaggine o una facile ironia: lo spunto – come avviene sempre, per tutti gli scrittori – arrivava più o meno consapevolmente dalla realtà, che già all’epoca veniva denunciata come “speculativa”.
- Tutto ciò ha comunque funzionato da cassa di risonanza, ha diffuso la filatelia su vasta scala, l’ha trasformata da “hobby dei Re” in “Re degli hobby”.
A poco serve raggiungere larghi strati di potenziali interessati, se contemporaneamente non gli si trasmettono i giusti motivi di interesse.
Nell’immediato l’approccio sembra funzionare, perché si sopravvaluta il valore segnaletico del denaro, salvo dover poi constatare di aver prosperato su presupposti sbagliati, di cui ci si lagna solo quando se ne scorgono gli effetti di più lungo periodo.
Vi piaceva negoziare con un «rubicondo fattore», disposto a spendere 750.000 lire in francobolli, «non importava quali, basta che fossero francobolli»?
Ora raccoglietene le conseguenze.
- Sostanzialmente mi sta dicendo che il cosiddetto “boom filatelico”, i tanto decantati “anni d’oro della filatelia”, non erano altro che bolla speculativa, destinata a scoppiare come ogni bolla. E quindi – immagino – vede con favore un ridimensionamento del fenomeno, il suo ritorno allo zoccolo duro di veri appassionati, su cui si potrà fare sicuro affidamento.
Non solo. Vedo con favore anche l’uscita del francobollo dalla vita quotidiana, il suo smettere di avere – finalmente! – un valore d’uso, una funzione pratica.
- Posizione curiosa. Senza il contatto quotidiano con il francobollo – secondo la tesi prevalente – si finirà con l’ignorarne l’esistenza, scemerà l’interesse e svanirà il desiderio del collezionismo filatelico.
Questa tesi mi lascia esterrefatto, al punto da farmi dubitare che possa realmente provenire da un collezionista.
È ancora scusabile l’ingenuità di chi vede il mercato filatelico in vitro, senza lo sfondo del sistema globale, ma il de profundis della filatelia per la cessata utilità pratica del francobollo – confondere cioè la morte del francobollo con la morte del collezionismo filatelico – significa solo una cosa: essere rimbecilliti, esserlo sempre stati, o esserlo diventati sotto l’inarrestabile processo degenerativo delle cellule cerebrali.
- Non le sembra di esagerare?
Esamini i precedenti, richiami l’esperienza personale, indaghi pure nella sua cerchia delle conoscenze: in quanti hanno iniziato a collezionare francobolli perché se li vedevano passare sotto gli occhi quotidianamente? e perché allora proprio i francobolli, e non le monete, a più elevata frequenza d’uso? e perché non i biglietti dell’autobus o gli scontrini fiscali, altrettanto diffusi se non di più?
Alzi la mano chi si è realmente entusiasmato per la prima volta con il 750 lire “Castelli” che affrancava la lettera dell’amichetto di penna. Non io, e penso davvero in pochi, in generale. Perché sin quando l’oggetto è schiavo del dover essere utile, sin quando è imprigionato nella banalità della vita quotidiana, nessuno potrà mai vedervi qualcosa in più di uno mero strumento per assolvere un’incombenza pratica.
- Pero non può negare che i francobolli di paesi stranieri – per la nostra generazione, quando eravamo ragazzini – erano una porta magica verso mondi sconosciuti e fascinosi. Su questa suggestione Umberto Eco vi ha costruito il protagonista del romanzo La fiamma di Lorena, quel Giambattista Bodoni che ricordava di aver «passato serate e serate a sognare sul Madagascar o sulle isole Figi, su rettangolini multicolori, sicuramente non rari, ma favolosi», di aver favoleggiato «su un paesaggio del Guatemala, sul rinoceronte della Liberia, su un’altra imbarcazione selvaggia che dominava nel grande francobollo (più piccolo lo Stato, più grande il francobollo, stavo imparando) di Papua».
Il potere evocativo di un oggetto va fisiologicamente incontro a variazioni, in ragione delle contingenze storiche. Sicuramente anche i francobolli ordinari nella loro veste ordinaria – i francobolli usati per affrancare la corrispondenza, per capirci – avevano la capacità di suggestionare, quando ad esempio ci portavano indirettamente a contatto con dei mondi altrimenti inaccessibili. Oggi che l’immagine di ogni luogo è a portata di un click, e il luogo stesso è fisicamente raggiungibile a costi sempre più accessibili, è ovvio che la carica emotiva di un oggetto che può solo evocarlo va a scemare. Però, appunto, si tratta di fattori contingenti, per quanto suscettibili di reindirizzare le nostre percezioni.
Per non cadere in fraintendimenti banali, e tuttavia esiziali, bisogna sempre riferirsi a quegli elementi che in precedenza lei ha chiamato “gli invarianti”: quei punti che rimangono comunque fermi – che non cambiano, che non variano – quando intorno tutto si modifica, anche radicalmente.
- Citavo gli “invarianti” – parlando dell’evoluzione dello stile collezionistico – perché sono un caposaldo del metodo scientifico, e lei – così mi sembra – ci tiene a conferire un rigore metodologico al collezionismo.
Forse l’esempio della topologia può risultare chiarificatore.
La topologia – alla lettera – è lo studio dei luoghi: topos, luogo; lógos, studio.
È fondata sull’idea che si possano studiare con massimo profitto solo le proprietà delle figure – e più in generale, degli oggetti matematici – che non cambiano anche quando vengono effettuate deformazioni molto evidenti del contesto in cui si trovano, purché senza “strappi”, “sovrapposizioni” o “incollature”.
Volendolo dire in altro modo: i migliori problemi geometrici da affrontare non dipendono dalla forma esatta degli oggetti coinvolti, ma piuttosto dal modo in cui questi oggetti sono connessi tra loro.
Ancora più evidente, forse, è l’esempio della Fisica, della naturale attitudine dei fisici a individuare ciò che in un problema è essenziale, profondo, invariante – e cosa invece è transitorio, contingente, mutevole – della loro scalata verso enti progressivamente più astratti, ma via via più affidabili, e più affidabili proprio perché più astratti, quindi indipendenti dalle circostanze del momento e dalle singolarità di un sistema particolare.
Einstein avrebbe voluto ribattezzare “teoria degli invarianti” ciò che i più conoscono come “teoria della relatività”, perché l’essenza dei suoi trionfi consisteva nell’aver identificato ciò che non cambia malgrado la relatività dei sistemi di osservazione e di misura.
- E per tornare alla filatelia e al collezionismo…
Per tornare al collezionismo filatelico, lo stesso Umberto Eco – fuori dalla versione romanzata, nei suoi Pensieri in bella copia, nella “Bustina di Minerva” del 7 agosto 2009 – ricordava che «l’umanità ha imparato a ritrovare come esercizio sportivo e piacere estetico quello che la civiltà ha eliminato come necessità» e se da un lato «i ragazzi scriveranno sempre più al computer e al telefonino» dall’altro resta vero che «anche nell’era delle e-mail c’è chi fa raccolta di francobolli».
- In definitiva: quali sono gli “invarianti” del processo collezionistico?
Il collezionismo non è l’attualità, ma la storia. Non il visibile, ma l’invisibile. Non l’utilità pratica, ma la densità di significati. Non l’oggetto, ma il simbolo. Non un passatempo tra tanti, ma una via privilegiata verso la cultura.
- Questa accorata difesa dei fondamentali mi riporta alle parole di Enzo Diena, nella prefazione al volume Classici senza miti, di Dino Platone e Maurizio Raybaudi: «i “classici” sono forse i soli francobolli capaci di dare una risposta esauriente alla domanda di cultura che scaturisce dalle generazioni di oggi».
Si può filosofeggiare quanto si vuole – con gran sussidio di sofismi, se occorre – ma il fatto rimane: l’ecletticità, la varietà e la ricchezza di sfumature della filatelia degli Antichi Stati offrono un’opportunità unica per scrivere un libro magico, di storia e geografia, di costume e società, se vi si approccia con intelligenza e fantasia, guidati dalla conoscenza del francobollo nella storia e della storia del francobollo, di questo straordinario testimone e cronista dei fatti dell’epoca, con i suoi stemmi e le effigi, gli annulli e i colori, ad aprire uno scorcio su luoghi, personaggi e episodi del passato, a scandire l’incalzare di eventi avvincenti e drammatici.
- Ci sono collezionisti gelosi della loro collezione, che distribuiscono con estrema attenzione il privilegio di farla ammirare. Altri la esibiscono di continuo nelle manifestazioni a concorso, per conquistare riconoscimenti pubblici sempre più prestigiosi. Altri ancora sembrano invece nascondercisi dietro. Lei – tanto per iniziare – ha scelto uno pseudonimo: Signor Fabiani.
L’ho ripreso dallo pseudonimo scelto da Re Francesco II di Borbone – l’ultimo Re di Napoli e Sicilia – negli anni d’esilio ad Arco di Trento, all’epoca ancora territorio austriaco: si presentava così, come Signor Fabiani, a chi non ne conosceva l’identità.
- Re Francesco II era per tutti “Franceschiello”, un diminutivo di chiara intonazione dispregiativa: scarsa presenza, imbelle, timido, fragile, insicuro, cupo, triste, annoiato, abulico, ingenuo, incompetente, indifferente, taciturno, depresso, bigotto e superstizioso. La brutta copia dal padre, nel più perfido degli apprezzamenti. Benedetto Croce lo definì «un fantasma della storia».
Non posso che rinviare al profilo biografico delineato da Gigi di Fiore nel libro L’ultimo re di Napoli, per avere un controcanto, o almeno delle righe di contrappeso.
Ma questa immagine del fantasma, da sola, esprime al meglio il rapporto che intrattengo con la mia collezione: ho sempre evitato di mettermi in mostra, non mi è mai piaciuto parlare delle mie conquiste, preferisco lasciar parlare i francobolli, e il pezzo più bello, per me, è sempre il prossimo da acquisire.
- Come nasce allora la scelta di esporre, e per di più sul web, a un pubblico potenzialmente illimitato?
Ogni forma di collezionismo esprime un’ossessione per l’ordine e il controllo e un sentimento narcisistico di possesso: collezionare significa governare l’interazione tra la sfera emotiva, che vuole possedere per ricordare, e la sfera razionale, che seleziona per mettere ordine.
La scelta di esporre è sempre un di più, dettato dalla vanità, dal desiderio di suscitare l’acclamazione del mondo, dalla voglia di competere con – e prevalere su – altri collezionisti, dal bisogno di affermarsi e farsi ricordare.
Ma nell’esposizione di “Al di qua del Faro” – mi lasci dire – c’è qualcosa di diverso.
- In difetto o in aggiunta?
In entrambe le direzioni.
Manca la dimensione competitiva, la medaglia, il premio, il punteggio, e tutto quell’apparato celebrativo sotto il dominio di una burocrazia valutativa che si auto-dichiara orientata verso giudizi oggettivi, e che pure, spesso, assomiglia al vagare senza meta di un marinaio ubriaco, capriccioso come il vento.
C’è, per altro verso, la voglia di rileggere in pubblico le peripezie ottocentesche del Regno delle Due Sicilie attraverso una sequenza ragionata di francobolli, lettere e giornali: “Al di qua del Faro” fa sua quella «discreta presa di distanza da ogni specialismo» di cui parla Calvino nelle Collezioni di sabbia, si emancipa dal tecnicismo per ritrovare il gusto di una «onnivora curiosità enciclopedica».
Ho voluto in definitiva riportare i francobolli all’interno del loro contesto – storico, politico, sociale, culturale, artistico, e poi, sì, anche postale – affinché potessero sprigionare tutti i significati di cui sono portatori, senza turbare il gioco con l’ansia da prestazione tipica delle manifestazioni a concorso, che i più delle volte prevale sul puro gusto della competizione.
Ho voluto creare un museo all’aria aperta, con l’idea che le opere dell’ingegno devono essere godute da tutti quelli che provano piacere a contemplarle, e non solo da chi le ha create, e la speranza che possano resistere al banco di prova più severo – il test of time – e di più sinceramente non mi sento di dire.
Vorrei lasciar parlare la collezione, che fosse la collezione a raccontare sé stessa, a coinvolgere ed emozionare nella misura in cui i suoi oggetti – e solo gli oggetti, opportunamente contestualizzati – sono in grado di fare, senza spiegazioni “dal di fuori” delle pagine.
- Non posso che rispettare la sua volontà, ma le chiedo se sia almeno possibile un giro dietro le quinte, nel backstage: se può dirci quali direttrici ha seguito, come si è regolato rispetto alle spese più impegnative, se vi siano stati particolari batticuori, quali i colpi migliori e gli errori più clamorosi.
Il principio seguito sin dai primi passi – l’idea basilare – è semplice: l’acquisto di ogni pezzo – per me – è stato sempre e solo un atto d’amore.
Non ho mai comprato un francobollo col retro-pensiero di una sua improbabile rivalutazione o col timore di una possibile svalutazione. Perché se tu ami la filatelia, la filatelia ricambierà il tuo amore, ma se invece vuoi sfruttare la filatelia, allora sarà la filatelia a sfruttare te.
Chi si preoccupa del denaro – e, intendiamoci, la preoccupazione del denaro è in sé legittima – è meglio che stia lontano dal collezionismo: è meglio per lui, ma lo è per tutti, in primis per la filatelia, perché le compravendite realizzate con motivazioni economiche portano solo a inquinare il nostro mondo.
La mia attenzione si è sempre appuntata sul senso e sul valore di ogni oggetto, per capire – subordinatamente alle mie conoscenze del momento – in che modo l’oggetto valorizzava la collezione e dalla collezione riceveva il suo significato, senza starmi troppo a preoccupare dell’inesistente “equità del prezzo”, pur dovendo imparare ad attribuire un prezzo a ogni oggetto, e però senza mai cadere in pericolose inversioni metodologiche: la fisiologia del processo va dal senso al valore per sfociare nel prezzo, e non viceversa.
- Sembra un invito, neanche troppo subliminale, a rifuggire dalle “occasioni”, dalle “pescate”, dai “buoni affari”.
Non dico questo, no. Se un oggetto può essere acquisito a un costo ridotto, perché non farlo? Io dico che un collezionista paga poco, se può; ma non esita a pagare molto, se deve.
- E con quale bussola ci si orienta tra “poco se si può” e “molto se si deve”?
Sono la persona meno adatta a cui domandarlo.
Non ho mai tenuto la contabilità dei miei acquisti, proprio per non cadere in quei calcoli di convenienza economica, che non saprei dire se sono più incerti o ridicoli.
Mi sono piuttosto sforzato – come già dicevo –di “ascoltare la collezione” man mano che prendeva vita e acquisiva una sua forma, di realizzare ciò di cui la collezione aveva bisogno, senza inquinarla con lo sdrucciolevole rapporto “qualità-prezzo”, tipico dei mercanti
e non dei collezionisti.
- Mi permetta di insistere: almeno una regola del pollice dovrà esserci, per tenere sotto controllo quella dimensione finanziaria a cui, per quanto ci si giri intorno, nessuno può sfuggire.
Se proprio fossi obbligato a dare un’indicazione di massima, un’euristica per capire a quale velocità si sta viaggiando, direi che serve ragionare “in media”.
- Può essere più preciso?
Il cosiddetto “mercato filatelico” non è un mercato; la parola “mercato” – nella scienza economica – ha un significato tecnico preciso; presume delle procedure di scambio, dei meccanismi di formazione dei prezzi, e non ultimo un sistema di regole a tutela delle transazioni, del tutto estranei alla filatelia.
Alcuni oggetti di valore, a volte, si riesce a prenderli a prezzi convenienti, nel senso che li si paga meno di quanto ci si aspettava. Per contro, a volte, si creano delle resse su pezzi minori – alla fine bastano due collezionisti a darsi battaglia in asta, per far schizzare il prezzo – e si finisce così per strapagarli. E poi ci sono pezzi che si pagano – più o meno, all’incirca – quanto si immaginava di pagarli.
Non c’è una regola nel singolo acquisto – alcune cose vengono via a niente, altre si devono pagare, a volte col denaro, a volte a peso d’oro, a volte col sangue – ma una logica la si può ancora ritrovare nell’insieme degli acquisti: se per un pezzo hai speso 10, quando di aspettavi di spendere 5, e per un altro hai speso 5 quando ti aspettavi di spendere 10, allora può dire di essere “in media”, di aver speso – per la collezione nel suo insieme – quanto ti eri programmato.
Però, ripeto, sono discorsi che lasciano il tempo che trovano, per quel che mi riguarda, e che comunque non mi appassionano granché. Anche perché, una volta che si è pagato 5 ciò che ci si aspettava di pagare 10, si rischia di entrare in un loop mentale in cui ogni cosa deve essere pagata la metà di quel che onestamente la si stima, con ciò auto-sabotato il proprio progetto.
- E lei – se posso abusare della sua pazienza – è mai riuscito ad applicarla questa “regola della media”?
Ho memoria di un solo pezzo preso alla base, in un’asta Bolaffi; e ancor oggi mi chiedo se non sia incappato in acquisto sbagliato, per quanto l’oggetto mi sembri in ordine e molto bello; su tutto il resto, ho sempre dovuto battagliare; anche se poi, alla resa dei conti, ho sempre pensato che era andata bene, nel senso che poteva andare peggio, in termini di spesa.
- Ha l’inalienabile diritto di non rispondere, ma io, a questo punto, la domanda devo porgliela: qual è il suo budget filatelico?
Le rispondo senz’altro, mutuando la posizione del professor Saverio Imperato: il concetto di budget filatelico è fluido, in un solo anno si può dover tirar fuori un pozzo di denaro, in tanti altri anni neanche un euro, e poi molto dipende dalla situazione economica del momento in cui si deve effettuare l’acquisto.
Per quel che mi riguarda, comunque, la penso davvero come Georgij Kostakis: personalmente posso rinunciare a tutto in nome della collezione, e nessuna privazione mi sembra così pesante quanto una casella vuota che potevo riempiere.
- Dietro ogni casella riempita ci sarà una storia da raccontare…
Sì: alcune le ho chiuse a forza bruta, altre con la complicità di chi era introdotto nell’ambiente e vantava un potere negoziale superiore al mio, altre ancora grazie ai discreti suggerimenti di qualche amico, ci sono state anche delle curiose carambole, e di quando in quando delle circostanze fortunate.
Ogni acquisto, volendo, può diventare una storia a sé.
- Le va di aprire uno spiraglio su questo mondo narrativo?
Le due lettere col 20 grana sono stati acquisti “violenti”, fatti “di prepotenza”, con tutta e solo la brutalità di cui è capace il denaro. Sono stato fortunato, lo ammetto: sono apparse sul mercato quando la situazione finanziaria mi consentiva di tenere la paletta alzata, ferma, senza abbassarla mai, finché non mi fossero state aggiudicate.
Sono i due pezzi per i quali – più di tutti gli altri – ho vissuto l’acquisto come il ricongiungimento con una persona amata, come fossero due amiche ritrovate, perché le avevo sentite mie sin dalla prima volta che le avevo viste in “Scilla e Cariddi”.
- E tra gli acquisiti più travagliati, invece?
Sicuramente la “Trinacria” su giornale. Se ne vedono con una certa regolarità, e alcune sono anche notevoli e offerte a prezzi ragionevoli.
- Sento arrivare un “ma…”.
Ma un collezionista conosce i suoi pezzi come un pastore le sue pecore. La mia “Trinacria” era una e una sola: quella storicamente riprodotta sul Catalogo Sassone, presentata come “la migliore conosciuta”.
- È venuta fuori dalla Corinphila, se ricordo bene, nel ciclo delle aste Provera.
Sì, e ho avuto un colpo al cuore quando l’ho vista: nella mia immaginazione era un pezzo che non sarebbe mai passato in un’asta pubblica, ma scambiato solo a trattiva privata, in quei circuiti sotterranei che si vengono a creare tra collezionisti, eredi, mercanti e agenti.
In quel momento non avevo però la potenza di fuoco necessaria a sostenere l’acquisto purchessia, anche perché era complicato congetturare l’ordine di grandezza su cui si sarebbe atterrati. La Corinphila richiede a ogni partecipante on-line di dichiarare in anticipo il limite complessivo che vuole darsi per le proprie offerte in asta, per poi procedere alla sua autorizzazione. Quale limite avrei dovuto richiedere? E se non mi fosse autorizzato? E se pure mi fosse stato autorizzato, e se pure fossi riuscito ad avere la meglio, come mi sarei regolato se la spesa si fosse rivelata superiore alle mie possibilità del momento? A complicare ulteriormente le cose, come se tutto ciò non bastasse, vi era l’incertezza su ciò che sarebbe accaduto alla dogana.
All’emozione è subentrata presto la frustrazione: la mia “Trinacria” era lì, davanti ai miei occhi, ma di fatto irraggiungibile.
- Però alla fine l’ha ghermita.
Non ci sarei mai riuscito senza la complicità dell’Ingegner Avanzo.
- Sono fatti riservati, o almeno in parte si possono raccontare?
L’ho chiamato più che altro per sfogarmi, e poi per capire – senza farmi troppe illusioni – se vi fosse la possibilità di individuare l’aggiudicatario, magari un commerciante, da cui riacquistarla pagando il margine aggiuntivo che sarebbe servito, in tempi compatibili con le mie disponibilità finanziarie.
Ero piuttosto sfiduciato, nel complesso, però lui mi disse che la situazione poteva essere meno complicata di come la immaginavo, non che fosse facile, ma comunque più governabile di quanto appariva. Perché – e qui la fortuna ci ha messo del suo – proprio in quel momento l’Ingegner Avanzo si trovava in affari piuttosto importanti con la Corinphila, nei quali, a questo punto, è stata per così dire “affogata” anche la transazione sulla “Trinacria”.
Non scendo in dettagli – più che altro per non annoiare – ma ritrovarmi schermato dall’Ingegner Avanzo – il fatto che sia stato lui a gestire ogni cosa – mi ha consentito di differire il pagamento di oltre sei mesi, nonché di ammortizzarlo con un’ulteriore serie di scambi tra me e lui, e non ultimo di risolvere il problema doganale.
Quella che sembrava una chimera è diventata – come d’incanto – una bella e semplice realtà.
- L’episodio più curioso?
Di curiosità ce ne sarebbero tante quante sono le acquisizioni, perché si può dire che non vi sia acquisto che non si porti dietro la sua quota di fatti singolari, insoliti, e talvolta anomali. Il folklore, però, ha valore solo quando impartisce degli insegnamenti.
- Riformulo: l’episodio maggiormente formativo?
Il grande frammento di lettera con tutti gli alti valori del Masini, dal 5 grana al 50 grana, appartenuto alla collezione del Principe Doria, e poi alla “Pedemonte”.
Era tornata sul mercato dopo oltre venticinque anni, dalla ditta Vaccari, che l’aveva inizialmente proposta a un prezzo apparentemente robusto, ma di fatto coerente con l’importanza dell’oggetto. Andò invenduto, e la stessa Vaccari lo ripropose a distanza di tempo a una base ridotta. Rimase inesitato anche al secondo giro, per essere quindi riproposto una terza volta – sempre da Vaccari – a un prezzo ridotto ai minimi termini, sotto il quale non poteva più ragionevolmente andare. Ma anche stavolta rimase al palo.
E qui ci si sarebbe da aprire tutto un discorso su come – a volte – sia più conveniente far sparire un oggetto, piuttosto che ribassarne continuamente il prezzo, col solo effetto di alimentare aspettative di ulteriori riduzioni, anche quando del tutto infondate.
È stata proprio l’irragionevolezza di un altro collezionista a permettermi di arrivare a dama.
- Cos’è accaduto?
Non c’è stato un solo giorno in cui non ho guardato quel frontespizio, dopo il terzo il giro d’asta andato a vuoto. Capivo che sotto quel prezzo non sarebbe potuto andare, ma il problema non era il prezzo. Il problema – l’unico, autentico problema – era se e in che misura quell’oggetto fosse funzionale allo sviluppo armonioso della collezione.
- Cos’è che non la convinceva?
Una stupidaggine – una clamorosa stupidaggine, mi lasci dire – se vista con la consapevolezza odierna: il fatto che l’esemplare da 5 grana avesse una stampa evanescente.
Mi sento stupido a dirlo ora, perché – a mia conoscenza – non esistono affrancature multi-valore del Regno di Napoli in cui tutti i parametri qualitativi siano simultaneamente rispettati, e alla fine uno deve collezionare ciò che esiste, non quel che si vorrebbe esistesse, ma non c’è.
- E cos’è che l’ha poi fatta propendere per l’acquisto?
Diversi elementi: anzitutto l’irreale nitidezza degli annulli, che mi sforzo di ricercare in ogni pezzo; poi la presa di consapevolezza che non esistevano oggetti altrettanto adeguati per chiudere la pagina del 50 grana, e che quel frontespizio introduceva un tocco di varietà in una sezione – i francobolli del Cavalier Masini – che rischiava di apparire monocorde; e infine, come corollario, la constatazione che le affrancature multi-valore di Napoli devono essere apprezzate nel loro effetto scenico, senza incarognirsi sui dettagli marginali rispetto all’importanza dell’insieme.
- Non ha pesato il fatto che si tratta dell’unico 50 grana usato a L’Aquila?
In modo marginale, a essere sincero. Questo fatto – nell’economia della mia collezione – è del tutto secondario: una mera curiosità, più che altro.
- Perché diceva che è riuscito ad acquistarlo grazie all’irragionevolezza di un altro collezionista?
Dopo vario tergiversare, scrivo alla ditta Vaccari per manifestare il mio interesse, e la responsabile delle vendite mi risponde che il mio ordine è arrivato “giusto in tempo”, e la toglie pure da una situazione piuttosto imbarazzante.
- Non mi lascerà con una curiosità insoddisfatta, voglio sperare.
L’oggetto era già stato adocchiato da un altro collezionista, che però voleva pagarlo ancor meno della base, e la ditta Vaccari avrebbe dovuto contattare il conferente per verificare se la controfferta al ribasso gli andava bene.
- Capisco l’imbarazzo del banditore: un prezzo ribassato già due volte – e arrivato ai minimi termini, a quel che lei mi dice – e però da ribassare ancora se si vuol venderlo, non è il miglior biglietto da visita di una casa d’asta verso un suo conferente.
Appunto. La mia offerta era arrivata “giusto in tempo”, per far felici tutti.
- Quasi tutti. Il collezionista “superato a destra” non sarà stato così felice.
Mi perdoni, ma né io né la ditta Vaccari abbiamo fatto “sorpassi a destra”. Il match-point lo aveva l’altro collezionista. Lui era arrivato prima sull’oggetto, lui aveva la priorità sull’acquisto, se non avesse voluto fare il furbo, se non si fosse messo in corsia di emergenza per evitare la fila, giusto per riprendere la metafora automobilistica.
- Intravedo la morale, ma lascio a lei il piacere di rappresentarla.
E io, di nuovo, lascio volentieri la parola a Georgij Kostakis: il collezionista non deve discutere o tirare sul prezzo di un oggetto, perché altrimenti rischia di farselo sfuggire.
Il denaro lo rimpiazzi con altro denaro, ma un pezzo unico è – per l’appunto – insostituibile. Davvero un risparmio di qualche centinaio d’euro – perché di questo parliamo – valeva il rischio di lasciarsi sfilare un pezzo mitico? Suvvia…
- Accennava pure a delle circostanze fortunate.
Sì, ma non nell’accezione diffusa del termine, quanto come improvvisa concomitanza di eventi e intuizioni che conduce a situazioni a cui razionalmente non si sarebbe mai arrivati, e che pure, una volta realizzate, sembrano naturali.
- Qualche esempio?
La lettera col 50 grana per Civitavecchia, un altro pezzo ex “Scilla e Cariddi”.
È tornato sul mercato, in asta, dopo oltre trent’anni. È andato invenduto, e questa è stata la prima grande fortuna. Rimanevo indeciso sull’acquisto, nel dopo asta. Mi chiedevo anzitutto se non vi fossero delle lettere ancora migliori, e poi, a prescindere da ogni altra considerazione, non mi era chiaro dove collocarla, in quale pagina, perché si trattava di un’affrancatura mista tra la prima e la seconda tavola, quindi di una sovrapposizione tra le opere del Cavalier Masini e dei De Masa, che nella mia narrazione sono tenute separate. Aggiungiamoci che il prezzo – giustamente – era più alto della media, e mi obbligava a riflettere su come saldarlo, ed ecco spiegato il mio stallo.
- Che, però, se capisco, si è poi sbloccato all’improvviso.
Sì.
L’architetto Francesco Civale – un raffinato collezionista, che ora ha concluso la sua avventura filatelica – mi ha fatto anzitutto fatto capire che non si potevano trovare delle lettere migliori, e tanto bastava a rimodulare tutte le mie riflessioni.
Poi, riprendendo in mano il catalogo della Collezione “Scilla e Cariddi”, ho visto che l’Ingegner Avanzo aveva coperto la lettera con la sigla “P.a.R.” (Prezzo a Richiesta) e avere ora un prezzo dichiarato era comunque un vantaggio.
Rimaneva però il busillis: dove collocarla? Non andava bene né per la pagina del Masini né per quella dei De Masa. E gli oggetti – non sarà mai abbastanza ripetuto – hanno valore nella misura in cui si possono inserire senza forzature in un progetto predefinito, in un insieme già costruito, per concorrere a illuminarlo meglio e per ricevere da quel progetto, da quell’insieme, una nuova luce, in un continuo gioco di specchi tra il singolo oggetto e il contesto in cui si trova.
A furia di ragionarci consapevolmente è come se avessi obbligato il cervello a pensarci per conto suo, sotto traccia, nel continuo; e il cervello, una volta arrivato alla sua conclusione, me l’ha poi spedita a livello conscio.
Sono quelle situazioni in cui si ha la sensazione di un’illuminazione improvvisa, ma dove in realtà si raccolgono i frutti di un lavorio sotterrano, dietro le quinte: la lettera, con tutta evidenza, si incastonava alla meraviglia nella pagina Tra l’acqua salata e l’acqua santa, anzi, non si poteva immaginare pezzo migliore e più appropriato per un passaggio narrativo che sino a quel momento beneficiava solo di un frontespizio con un 5 bajocchi dello Stato Pontificio.
Una vera fortuna, non le pare?
- Raccontare dei successi, e dei fischi non parlarne mai – cantava Ron. Perché, oltre ai bersagli centrati, ci saranno stati anche obiettivi mancati.
Ovviamente.
- Il dolore più grande?
La lettera col falso d’epoca da 20 grana isolato, da Napoli a Torino, indirizzata al Comitato Politico Centrale Veneto per l’Emigrazione italiana: in uno stesso documento si intrecciano il Regno di Napoli in dissolvenza, il Regno d’Italia in fase di formazione, e un territorio, il Veneto, destinato a completare l’Italia che sarà.
È una fitta così lancinante e costante che – per placarla – ho comunque dovuto inserire la pagina, come se fosse realmente presente in collezione, anche se non lo è. Lo esigeva il completamento del discorso narrativo.
- Come è potuta sfuggirle, se per lei era così importante?
Lei ha stralciato uno strofa di una canzone di Ron, e io le ribatto allora con De André: è una storia da dimenticare, è una storia da non raccontare, è una storia un po’ complicata, è una storia sbagliata…
- Non le va proprio di parlarne?
La lettera è stata ripetutamente proposta da Filsam, per ben cinque anni, e alle migliori condizioni possibili, perché all’epoca la casa sammarinese praticava commissioni del 15%, quando il resto del mercato aveva iniziato a viaggiare intorno al 22%.
- E perché non l’ha acquistata, allora?
Perché nel collezionismo c’è un momento in cui apri gli occhi e capisci, un autentico risveglio, un’illuminazione, ma sino ad allora vai di necessità a tentoni nella penombra, e a volte nel buio più pesto.
Di quella lettera, per lungo tempo, ho visto solo la sua grande qualità, e a lungo mi ha trattenuto il fatto che i falsi d’epoca erano un settore per me marginale. C’era insomma un vizio di pensiero: ero ancora condizionato dalle classificazioni “da catalogo”, che – senza che tu te ne accorga – ti impongono di creare la pagina del ½ grano, seguita da quella dell’1 grano, e via fino al 50 grana, per poi attaccare appunto con i falsi, la “Trinacria”, la “Croce”, e avanti con questo passo stereotipato.
Quando finalmente ne ho capito tutto il pregio – la sua posizione di centralità nella mia collezione – era apparentemente troppo tardi: quando ho chiamato la Filsam, per manifestare il mio interesse, mi è stato risposto che la lettera non era più disponibile, che era stata venduta.
- Dopo cinque anni ci stava che avesse trovato un nuovo custode.
Sì, può darsi. Ma la mia sorpresa è stata nel vederla riapparire sul mercato, a distanza di poco più di due anni, in un’altra casa d’asta. Mi ero ripromesso di farla mia senza esitazioni, ma poi le cose hanno seguito vie – come dire? – eterodosse.
- “Eterodosso” – alla lettera – lo si dice di chi ha un’opinione o segue una dottrina diversa da quelle comunemente accettate per vere.
Oppure – senza scomodare la verità – di chi adotta linee d’azione alternative e a ciò che – in un dato contesto – è considerato un protocollo fair.
- Il suo esprimersi è decisamente ermetico.
Di più non posso espormi, mi spiace. Ognuno capisca quel che vuole. Come dicevo, è una storia sbagliata, e non già perché ne sia uscito sconfitto – ché il collezionismo è un gioco: si vince, si perde – ma lo è intrinsecamente, per come si svolte le cose, da qualunque angolazione le si vogliano osservare, qualunque fosse stato l’esito.
- Ci sono stati altri dispiaceri?
Più d’uno, anche se nessuno mi ha dato lo stesso dolore della lettera col falso del 20 grana.
Penso ad una magnifica striscia di quattro del ½ grano usata in periodo di Regno d’Italia; a una bellissima stampa affrancata con un ½ grano delle Province Napoletane, con l’intestazione “Almanacco d’Italia”; e poi a diversi “svolazzi”.
Tutti oggetti usciti nelle aste Provera, ma a cui ho dovuto rinunciare, nella logica propria di ogni collezionista che si ritrova costantemente a dover fare delle scelte, a stabilire quali oggetti prendere a bordo e quali lasciar andare, nella speranza di rivederli, prima o poi.
- La sua, se posso dire, rimane una gran bella collezione. Mi tolga una curiosità: il titolo – “Al di qua del Faro” – sembra distonico con parte del contenuto, che accoglie anche i francobolli di Sicilia, dei dominî al di là del Faro, nonché delle Province Napoletane e addirittura del Regno di Sardegna, quando le Due Sicilie – i dominî al di qua e al di là del Faro – non esistevano più; lo stesso sottotitolo – “Napoli 1858-1863” – appare in questo senso incongruente con il titolo. Come si giustificano queste anomalie, rispetto a una collezione il cui genoma è di tipo storico, più che filatelico?
Sono anomalie – come giustamente dice lei – che ambiscono a restituire la complessità degli eventi: meglio una risposta approssimata alla vera questione, che spesso è vaga, che non una risposta esatta a una questione falsata, che può sempre esser resa precisa.
“Al di qua del Faro” perché c’era un “Faro” – ciò che oggi chiamiamo Stretto di Messina – a separare i due dominî del Regno, e non si può capire (il crollo di) Napoli se non si è prima capita la (tensione in) Sicilia; quella Sicilia che d’altra parte dà già segni di sé – col simbolo della Trinacria – nei francobolli di Napoli, e per altro verso il Re di Napoli spadroneggiava in Sicilia grazie ai francobolli con la sua effigie.
Già il Ministro della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia, Francesco De Sanctis, annotava poi che «diventando italiani, non abbiamo cessato d’esser napoletani», e non vi è modo migliore di capire la sua posizione dei francobolli della Province Napoletane, con la faccia del nuovo Re e il facciale della dinastia decaduta.
La Nazione napoletana e il patriottismo duosiciliano sono state realtà inerziali – come tutti gli eventi della Storia, della vita – per le quali non esistono veri e propri confini, ma solo delimitazioni convenzionali, a uso dei testi scolastici. Io, qui, ho voluto fare ben altro.
- Per quale pezzo le piacerebbe che fosse ricordata “Al di qua del Faro”, se dovesse citarne uno solo?
Per l’insieme, per l’impegno. Come ci siamo ripetuti, la collezione non è riducibile alla semplice somma dei singoli pezzi, e del resto non è un singolo pezzo che può fare la storia, ma possono riuscirci solo lo stile, la scelta estetica, il valore culturale.
- Però ci sarà un pezzo che le ha dato un’emozione più intensa, un brivido particolare.
Direi l’assicurata indirizzata alle “Sacre Mani di Re Ferdinando”, completa di testo: è un oggetto filatelico che dà uno spunto straordinariamente suggestivo per capire, per apprendere, per saltare a campi ben diversi dalla filatelia, insomma per arricchirsi dentro.
- Come definirebbe la sua collezione, in meno di un rigo?
Con un verso di Mediterranea è, una bella e allegra canzone di Mimmo Cavallo: «una voce in fondo al mare, un canto di sirene».
- Siamo alla fine, perché la parola “fine” bisogna pur scriverla a un certo punto, anche se si ha ancora tanto da dire, da raccontare. Come distillerebbe ciò che ha imparato dalla vita, filtrata attraverso la sensibilità di un collezionista?
Ho imparato che per preservarsi giovani – anche in età avanzata – è sufficiente sorridere ed empatizzare, alimentare la possibilità di entusiasmarsi e sorprendersi, coltivare il godimento del viaggio più che compiacersi del raggiungimento della meta.
La mia collezione ha giocato – e gioca ancora – un ruolo fondamentale in questa eterna giovinezza: mi è costata parecchio denaro, me ne frutterà poco, ma ogni giorno mi restituisce una gioia e un conforto altrimenti irraggiungibili.
Qualcuno potrà dire che non ho fatto niente di utile, ed è vero: la mia collezione non vale nulla, se giudicata secondo tutti i parametri pratici, e del resto – se fosse utile a qualcosa – spetterebbe ad altri riconoscerlo. E tuttavia ritengo di poter ancora sfuggire a un verdetto di irrilevanza, se si tiene conto che ho creato qualcosa che valeva la pena creare, che l’ho creata con passione e convinzione, affinché la si potesse ammirare intensamente.
Forse è un’esagerazione ripetere con Pierre Rosenberg – Presidente onorario del Louvre – che «i collezionisti sono le uniche persone che andranno in paradiso».
Ma per quel poco che rovisterete nei vostri sentimenti, per quel minimo che vorrete scavare nel vostro animo, vi renderete conto di quante corde emotive vengono sollecitate attraverso il collezionismo, di quanti fremiti di piacere il collezionismo sa regalare – la bellezza e l’ingegno, l’impeto e la dedizione, la razionalità e il sentimento, il dettaglio e la visione del tutto – e vi sarà giocoforza concludere, con Goethe, che «i collezionisti sono persone felici».
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