Intorno ai semiofori

Comunicare è un bisogno così pressante, e più spesso un desiderio così prepotente, da non arrestarsi davanti a una distanza fisica che in apparenza impedisce di soddisfarlo. L’esigenza e il piacere di comunicare non si rassegnano alla distanza, e forse aumentano ancor più, sollecitando l’ingegno a escogitare soluzioni per superare l’ostacolo, per entrare in contatto nonostante tutto.

Comunicare a distanza ha significato per secoli scrivere una lettera, e scrivere una lettera significava dar vita a un cerimoniale con cui si creava una magia nelle relazioni interpersonali: una penna d’oca da intingere in un calamaio di ceramica, la percezione della carta sotto le dita, il peso della parola scritta di proprio pugno, il discorso che prende forma pian piano, attraverso uno scrivere partecipato, meditato e riflessivo; e poi la cura nella calligrafia, l’attenzione alla scrittura del nome del destinatario e dell’indirizzo, le accortezze nel ripiegare il foglio – e più tardi nella scelta della busta – e, ancora, le decorazioni, i rilievi, i sigilli, come a custodire un segreto in uno scrigno.


Eleganza e buone maniere, gentilezze e poesia, tutto concorreva a creare quelle belle lettere che parlavano del mittente ancor prima di essere aperte e invogliavano a sostenere la spesa per leggerne il contenuto.

Sì, perché fino alla prima metà dell’Ottocento il galateo lasciava al destinatario il piacere di pagare per conoscere le ultime notizie di parenti e amici, le comunicazioni del notaio o dell’avvocato, il colpo del socio d’affari, le confidenze dell’amante.

Dal 1840 il rituale della comunicazione a distanza si arricchisce di un nuovo personaggio, il francobollo, che ne capovolge il meccanismo di funzionamento: a pagare non è più il destinatario, al ricevimento della lettera, ma il mittente, all’atto della spedizione, per ragioni di praticità e convenienza economica, di razionalizzazione del servizio postale.

Il pioniere è l’Inghilterra, con il leggendario Penny Black (6 maggio 1840), a cui si accodano il Cantone di Zurigo (marzo 1843), il Brasile (luglio 1843), i Cantoni di Ginevra e Basilea (ottobre 1843, luglio 1845) sino alla diffusione su scala mondiale.

Nella penisola italiana i francobolli entrano in scena nel 1851, in pieno “Risorgimento”, in quel periodo che col beneficio della retrospettiva sarà definito “il decennio di preparazione” – fatto di manovre politiche, intrighi diplomatici, guerre e moti insurrezionali – e culminerà nella formazione del Regno d’Italia, nel 1861.

I francobolli degli Antichi Stati Italiani nascono come oggetti strumentali alla razionalizzazione del servizio postale – al pari dei francobolli di qualsiasi altro Stato – in risposta all’esigenza amministrativa di coprire in anticipo il costo di spedizione della corrispondenza.

Ma la particolare fase storica ne determina un uso pratico limitato e li candida ben presto a entrare nei libri di Storia.

 
Dal capitolo XI dell’opera La Fine di un Regno, di Raffaele de Cesare (1895). 

C’è altro, un’argomentazione più sottile e intrigante.

Quando le cose vengono spogliate dalla loro funzione pratica – quando vengono «liberate dalla schiavitù di essere utili» per dirlo col linguaggio smagliante di Walter Benjamin – si apre uno spazio interpretativo per caricarle di qualità supplementari, di valenze simboliche e significati affettivi, per traslarvi le emozioni e trasformarli in un mezzo di identificazione.

Così come nelle conchiglie di spiagge esotiche sembra riecheggiare lo sciabordio del mare, gli oggetti possono trattenere eventi e sensazioni del passato, e di sicuro posseggono un potenziale romanzesco che attende di essere narrato, per rivelarne il loro significato più autentico: l’essere intermediari tra il visibile e l’invisibile, sentinelle della memoria, custodi di ricordi e nostalgie.

Questi sono i semiofori, nella definizione di Krzysztof Pomian: oggetti visibili di un mondo invisibile, l’evocazione di una realtà non più tra noi se non attraverso gli oggetti, con cui il passato si trasferisce nel presente, contrastando il pur ineluttabile fluire del tempo.

L’idea di semioforo nasce in museologia, ma poi si estende sino a scoprirsi «mai esauribile» – ancora con le parole Pomian – e nel suo continuo dilatarsi offre un’originale chiave interpretativa del fenomeno collezionistico (filatelico).

Quando i francobolli vanno fuori corso e non servono più nella vita di ogni giorno, quando sono sottratti all’indifferenza della funzionalità e all’oblio della successiva inservibilità, quando sono «mantenuti al di fuori del circuito di attività economiche, sottomessi a una particolare protezione in un luogo chiuso, attrezzato a questo scopo, ed esposti allo sguardo» – ancora con Pomian – possono iniziare una nuova vita, inserirsi in un nuovo corso storico, estraneo e protetto rispetto al flusso principale.

Il francobollo diventa allora un oggetto attraverso cui guardare nel suo mondo di provenienza, e in cui è presente tutto un mondo, col suo inserimento in un ordine appositamente creato, la collezione, un luogo in cui prendere rifugio dai ritmi della vita, per contemplare e riflettere, per scoprire il passato e raccogliere intuizioni sul futuro, per stupirsi davanti ai processi di ricerca e ai desideri di conoscenza suscitati da questi quadri in miniatura, dalla capacità di questi gioielli di carta di tenerci in evoluzione continua, com’è nella natura di una collezione.

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