Ccà nisciuno è fesso
«Affinché di un bollo di posta già usato non possa farsi uso fraudolento per la seconda volta, gl’impiegati a ciò addetti apporranno nell’atto della spedizione della lettera o piego un marchio sul bollo di posta con la impressione Annullato».
Il Real Decreto di emissione dei francobolli napoletani disponeva (all’articolo 7) la creazione di un nuovo timbro postale, con la parola “Annullato” scritta in stampatello maiuscolo, dentro un rettangolo (che i collezionisti avrebbero ribattezzato “cartella”).
Il Regolamento postale (Real Decreto N. 4454) ne disciplinava le modalità di utilizzo. «Compiuta la verifica de’ bolli, gli impiegati preposti alla spedizione apporranno sul bollo di posta un marchio con la espressione - Annullato - ed avranno cura di covrire mai la indicazione del prezzo che leggesi in piedi del bollo».
“Annullato” era una parola di notevole potenza comunicativa – nullo, non più valido, inutilizzabile, fuori uso – accentuata dall’essere scritta interamente a lettere maiuscole. Ma la particolare forma del timbro – lineare e indistinta per tutte le Officine di Posta – rendeva semplici i raggiri, a spregio della definitività del messaggio che vi era contenuto. Le possibilità di frode erano molteplici, e gli abusi furono numerosi, sia sui bassi che sugli alti valori, sin dai primi giorni d’uso dei francobolli.
L’Amministrazione postale tentò dapprima un contrasto burocratico, coinvolgendo l’Agenzia del Contenzioso per sondare la praticabilità della via penale contro chi riutilizzava i francobolli. La risposta fu negativa: le frodi postali non erano suscettibili di procedimenti penali.
«Quanto all’uso la seconda volta fraudolentemente fatto dei bolli, non mi rimango persuaso delle osservazioni dell'Agente del Contenzioso» – scriveva l’Amministratore delle Poste al Ministro delle Finanze, il 13 aprile 1858 – e chiosava «non senza ripetere essere l’affare di grande importanza da meritare la considerazione e maturo esame».
Il 6 maggio 1858 la questione finì sul tavolo della Commissione Consultiva de’ Presidenti della Gran Corte dei Conti. Ne venne fuori un rapporto lungo e dettagliato, che servì da base per l’emanazione del Real Decreto n. 5417 del 3 dicembre 1858, con cui si disponeva che «[i]l novello uso de’ bolli di posta già usati [...], costituendo un reato di frode, l’ammenda da applicarsi […] sarà quella di Polizia nella quale s’incorre col sol fatto di essersi immessa nella buca o nell’ufficio postale la lettera col bollo già usato».
Molto formalismo per nulla: gli abusi proseguirono nella stessa misura, senza punizioni per i colpevoli.
Serviva un cambio di strategia.
«Un sospetto da più tempo mi è surto nella mente che in alcuni Uffizzi di Posta nelle province taluni, impiegati o altri ch’esser possano, da mal talento sospinti, inducansi a commetter frode in un secondo uso de’ bolli postali, la originaria impressione del marchio col motto annullato con altra simile ricoprendo» – scriveva l’Amministratore delle Poste al Ministro delle Finanze, il 7 giugno 1860 – «Di ciò ebbi l’onore in speciale conferenza far motto a Lei, nella quale sommessamente la necessità le rassegnai di sostituirsi a’ bolli col motto annullato, attualmente in uso, altri per caratteri vari e per configurazione diversi, la forma unica rettangolare del tutto smettendo».
Nascevano così gli «incredibili annullamenti “a svolazzo” del Regno di Napoli», i «più fantasiosi bolli postali del mondo» – con le parole di Alberto Diena – «il più ampio complesso organico di bolli postali mai creati al mondo» – nell’opinione di Enzo Diena.
L’incisore Luigi Porta realizzò i nuovi timbri annullatori con fogge estrose e stili differenziati – stampatello maiuscolo e minuscolo, bastardo, corsivo inglese e corsivo bastardo, rondino – per rendere virtualmente impossibili quelle frodi così facili da perpetrare col timbro “in cartella”.
Se ne produssero 36 – cui se ne aggiunse uno preparato in seguito e impiegato a Benevento e Tagliacozzo – distribuiti tra le 138 Officine di Posta e i 16 Uffici secondari, con tempistiche variabili per l’incalzare degli eventi rivoluzionari.
Entrarono in circolazione nell’agosto del 1860 e rimasero in uso da un minimo di sette mesi a un massimo di undici, in ragione dell’Officina di Posta, sopravvivendo allo stesso Regno in cui erano stati ideati.
Mettere fine alle frodi con gli “svolazzi” si rivelò un’illusione.
A Napoli si trovò il modo di sottrarsi alla novità – approfittando della confusione politica – proseguendo indisturbati nell’applicare francobolli già usati sulla nuova corrispondenza; e le frodi continuarono anche nelle province del Regno, come testimoniano i francobolli riutilizzati anche quando già annullati da altri “svolazzi” e persino se annullati “in cartella”.
Ma gli “svolazzi” rimangono una testimonianza straordinaria dell’epoca: aprono uno spiraglio sul perenne inseguimento tra guardie e ladri, sul gioco d’astuzia, di mosse e contromosse, tra le istituzioni del Regno e la parte più sbarazzina del suo popolo.
Se non era servita nessuna fantasia per beffare l’annullato “in cartella”, se l’inventiva napoletana non era poi stata messa così a dura prova, la reazione istituzionale si caratterizzò invece per la più creativa delle contromisure, di là degli esiti sperati: «[l]’idea di creare dei bolli con la medesima scritta, ma differenti per i caratteri e per la forma, è del tutto originale» – scrive Emilio Diena – e quell’idea originale si è tramutata in uno dei fenomeni collezionistici più affascinanti degli Antichi Stati.
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