Alle Sacre Mani di Sua Maestà
«Il mio popolo non ha bisogno di pensare:
io mi incarico di avere cura del suo benessere e della sua dignità»
Numerose dinastie regnarono su Napoli, ma nessuna ne interpretò lo spirito come i Borbone, se non nell’espressione più bella, di sicuro nella più vera: una famiglia con 127 anni di storia alle spalle, dal 1734 al 1860, rappresentata da cinque Sovrani – un Carlo, due Ferdinando e due Francesco – di cui quattro nati nel Regno, abituati a parlare il più puro e accentuato dialetto.
Se i Borbone sono il cuore di Napoli, Ferdinando II è il cuore dei Borbone: un pater familias cosciente del suo potere, con un’indole tutta partenopea, che non si limitò a occupare il trono ma lo riempì in tutta la sua capienza.
Ferdinando II di Borbone, un Re amato e odiato in egual misura, comunque nel cuore del popolo, che lo sentiva sì vicino, ma lo percepiva anzitutto come un Sovrano, non uno di noi, ma uno superiore a noi, un Re.
Il cantautore Ferdinando Russo lo sintetizza mirabilmente nel poemetto ’O luciano d’ ’o Rre’, in cui un popolano di Santa Lucia ricorda il Sovrano: «Ferdinando Sicondo. E che ne sanno?! Coppola ’nterra!»; e dopo aver sottolineato che «’O Rre me canusceva e me sapeva!» – il Re mi riconosceva e si ricordava di me – si prostra al suo ricordo: «còppola e denocchie!», giù il cappello e in ginocchio, davanti al solo nome del Re.
Ferdinando nacque il 12 gennaio 1810, a Palermo, dove la famiglia reale napoletana si era rifugiata sotto l’incalzare degli eserciti napoleonici. Salì al trono l’8 novembre 1830, a vent’anni.
Spirito beffardo e motteggiatore, eccitabile e ciarliero, timoroso della iattura e amante degli scherzi come il nonno, pronto a togliersi il sigaro di bocca per darlo al primo lazzarone di passaggio: un napoletano verace, nell’intera estensione della parola.
Leggeva poco, disprezzava la cultura e chiamava pennaruli gli intellettuali. Ammetteva solo le dottrine dei magistrati e degli ecclesiastici, le uniche percepite utili al benessere sociale e alla stabilità politica. Come tutti gli uomini incolti, che assai presumono di sé, mal tollerava
la compagnia di persone raffinate, e non aveva mai intorno gente che
valesse più di lui. Incline a cogliere l’aspetto opaco delle cose, e a scorgere negli uomini le debolezze più che le virtù, era insospettito da ogni novità, anche la più innocua, convinto di poter risolvere ogni situazione col senso comune.
Impetuoso e autoritario, ma senza ambizioni di conquiste o smanie di avventure. Onesto e parsimonioso, e con lui la famiglia reale tutta, più che non convenisse al suo grado. «Terè, a poco a poco finimmo cu servirci a tavola noi stessi» si lagnò con la seconda moglie.
Era lui, a tavola, a fare le porzioni. Gli piacevano i cibi grossolani della povera gente, di cui i napoletani sono ghiotti: il baccalà, il soffritto, la caponata, la mozzarella, le pizze e i vermicelli al pomodoro. Amava la cipolla cruda, che mangiava ogni giorno schiacciandola direttamente con la mano, perché il coltello – così diceva – dava e prendeva un cattivo sapore.
Usava un linguaggio popolare e aveva modi contadini e atteggiamenti bruschi, appena temperati da qualche correttivo di cordialità e bonomia. Si prendeva libertà con tutti, e a tutti appiccicava dei soprannomi.
All’occorrenza sapeva parlare diverse lingue, ma il suo pensiero trovava la rappresentazione più fedele solo nel dialetto, di cui anche l’italiano restituiva una versione approssimata, meno spontanea, arguta e vivace. Tutto ciò che gli impediva di parlare il napoletano lo infastidiva potentemente.
Amava la terra e la vita semplice, preferiva stare in mezzo alla gente che ingabbiato nel cerimoniale antico di qualche bella reggia.
Alla lode preferiva il sarcasmo, e semmai la concedeva, l’accoppiava a una leggera tinta d’ironia, per non farla accettare acriticamente.
Non tollerava le imposture di chi si comportava da bigotto per entrargli in grazia, o si abbandonava a adulazioni iperboliche, che il più delle volte gli riuscivano insopportabili.
Sposò Maria Cristina di Savoia nel 1832 e mai coppia sembrò peggio assortita: lei fragile, timida, sensibile, esangue; lui massiccio, esuberante, grezzo.
Ferdinando rideva degli scrupoli di lei, la canzonava per l’eccessivo attaccamento all’insopportabile etichetta della Corte di Torino. «La Regina non è del nostro gusto, ma è una bella donna».
E anche per la Regina, abituata alla vita claustrale del castello savoiardo, l’incontro con la chiassosa Napoli fu probabilmente un piccolo trauma.
Ma Cristina seppe pure introdurre dei costumi più sobri e moderati nella sguaiata Corte napoletana. Influì non solo sull’atteggiamento del marito, per renderlo meno rozzo, ma anche sulla sua azione politica, rendendola più tollerante. Diede un volto umano ai Borbone, che grazie a lei guadagnarono o riguadagnarono numerosi consensi, e comunque migliorarono la propria immagine. Fu ripagata con una devozione illimitata. «Quel po’ di buono che ho imparato l’ho imparato da lei» – riconosceva Ferdinando – «Non posso esser più felice e non avrei mai creduto che si potesse esserlo tanto in questo brutto mondo».
Da Maria Cristina nacque Francesco, l’erede al trono. La Regina morì quindici giorni dopo il parto, e la storiografia antiborbonica dipinge un Ferdinando insensibile al lutto, addirittura disertore del capezzale della moglie. Bugie, malignità. L’evento lo colpì profondamente, stentò a riprendersi e ne uscì cambiato in peggio.
L’interesse dinastico esigeva peraltro un nuovo matrimonio, e la scelta cadde su l’Arciduchessa d’Austria Maria Teresa d’Asburgo, cugina dell’Imperatore Francesco Giuseppe. Ferdinando vi trovò una buona sostituta di Cristina. La chiamava familiarmente Teta e Tetella, e con lei conduceva una vita semplice e parca. Avevano pressappoco gli stessi gusti. Partecipavano alle cerimonie d’obbligo e non ammettevano sgarri all’etichetta, ma le detestavano. A Corte usavano una geografia convenzionale: gli inglesi erano i baccalaiuoli, i francesi i parrucchieri, i russi mangiasivi. Solo degli austriaci si discorreva con rispetto, perché austriaca la Regina.
Dopo il 1848 Ferdinando rivelò la propria natura dispotica: il suo proposito non era più liquidare il regime assoluto – e forse non lo era mai stato – ma solo renderlo più efficiente, assumendosi tutte quelle responsabilità che il padre e il nonno avevano sempre evitato.
Era informato di tutto e non smise mai di occuparsi degli affari del Regno, anche i più minuti. Dava istruzioni e ordini all’insaputa dei suoi Ministri, con lettere autografe – familiari, brevi e precise, non prive d’idiotismi napoletani – scritte col “voi” e più spesso col “tu”, su foglietti di carta comune. La sua burocrazia era composta per lo più da mezze figure, senza altra libertà che eseguire i suoi ordini.
Lo seccava la pubblicità e lo irritavano le accuse della stampa liberale del Piemonte, della Francia e dell’Inghilterra. Non riconosceva a nessuno il diritto di intromettersi nelle faccende del Regno, la cui forza presumeva l’emancipazione da quella sovranità limitata più volte imposta al nonno, prima dai Borbone di Spagna, poi dagli alleati inglesi e austriaci nel contrasto alla rivoluzione. Il suo patriottismo combinava l’indipendenza napoletana con l’assolutismo più rigoroso e l’esaltazione del lealismo dinastico. La cocciutaggine nel respingere i consigli di moderazione – di una politica concorde allo spirito del secolo – metteva la sua diplomazia in una condizione spesso umiliante.
Il motto “lo Stato son io” – dopo Luigi XIV – non trovò applicazione più perfetta di Ferdinando II, perché lui – e solo lui – poteva valutare l’opportunità di ogni concessione. Governava come un patriarca che amministra personalmente la giustizia sotto l’albero di fico, e mozza la testa a chiunque la trasgredisce.
Era stato il paladino della riscossa legittimista in Europa, il pioniere della nuova restaurazione, il solo a domare la rivoluzione con le proprie forze. Rappresentava il difensore di tutte le antiche patrie e dell’assolutismo, l’equivalente per i legittimisti di ciò che Cavour e Vittorio Emanuele erano negli ambienti liberali.
Ripristinare la Costituzione e aprire le prigioni significava tornare al 1848: quei pochi mesi, a Napoli, erano stati i più tormentati del Regno, e poi il suo temperamento mal si accordava con un sistema che, nel limitarne il potere, tentava ogni giorno di diminuirlo. Il suo orgoglio – di Sovrano e di uomo – veniva ferito al solo pensiero di veder discussi i suoi atti, malignate le sue intenzioni, diffamata la sua famiglia.
La vittoria non aveva però messo fine al liberalismo meridionale. Buona parte dei migliori quadri politici – circa 800 – si trovava dentro le carceri, e una lista impressionante di sudditi – superiore alle 20.000 unità – era priva di diritti politici, per presunte cospirazioni contro la dinastia. Numeri pesanti, che rivelavano una fitta rete di cospirazioni, tra figure della borghesia e del notabilato provinciale con tutte le loro clientele. Gli esuli – tra Londra, Parigi e Torino – alimentavano l’immagine cupa delle Due Sicilie e del suo Re, e ne ricavavano una legittimazione internazionale.
Ferdinando desiderava far cessare quello stato di tensione, ma non ne vedeva il modo, né modo vi era, vista la sua personalità e l’indole del suo popolo.
Ferdinando non immaginava altro Regno che il suo, e così fatto: il Re responsabile dinanzi a Dio, i funzionari pubblici responsabili dinanzi al Re e nessuno responsabile dinanzi al Regno.
Governava con l’ideale di un’aristocrazia relegata tra le cariche della Corte, una borghesia impaurita e una plebe soddisfatta di avere abbastanza per non morir di fame, felice che non le mancasse ciò che era necessario alla vita. Amava sì la prosperità del suo Regno, ma fino a un certo punto. Voleva che il suo fiorire non fosse incentivo di altri bisogni o desideri.
Sapeva di aver perduto ogni simpatia, e conosceva pure le trame contro di lui, a Parigi e a Londra, ma anche a Torino. Detestava il Piemonte, in cui vedeva il peggior nemico, senza farne mistero: non aveva remore nel manifestare le sue diffidenze, sempre imprudenti e spesso volgari.
Ma era così infatuato della sua potenza da non temere pericoli: aveva la ferma convinzione che, con lui vivo, nessuna pericolosa novità si sarebbe mai tentata.
Il Regno godeva di una posizione geografica privilegiata, da cui trarre i maggiori vantaggi economici, ma era privo di ogni preparazione per divenire un centro di traffici commerciali, di crediti e depositi, di trasporti e attività imprenditoriali. Dove trovare, a Napoli, la cultura necessaria?
Segni di rinnovamento e risveglio industriale apparivano ogni tanto qua e là, ma il Re temeva sempre che dallo sviluppo economico si scivolasse nelle innovazioni politiche. Per un nuovo mercato che si apriva, per una nuova industria che si tentava, occorreva un decreto sovrano, preceduto da una delibera del Consiglio dei Ministri. E il Re consentiva i decreti, ma poi se ne pentiva, e ogni cosa rimaneva perciò lettera morta.
Non si moveva foglia che Ferdinando non volesse, perché lui – solamente lui – doveva misurare il grado di benessere dei suoi sudditi, e lo misurava come quello di casa sua, con parsimonia e scarsa luce d’intelletto.
L’8 dicembre 1856 – il giorno dell’Immacolata Concezione, patrona di Napoli – il Re partecipò alla Santa Messa con tutta la famiglia, gli alti funzionari governativi e svariati nobili al seguito.
Dopo la celebrazione assistette, a cavallo, allo sfilare delle truppe sul Campo di Marte a Capodichino.
Il soldato Agesilao Milano uscì all’improvviso dai ranghi e gli vibrò un colpo di baionetta.
Il Re rimase impassibile, anche perché la lama fu deviata dalla sella e non gli procurò che un’escoriazione. Diede a ogni modo prova di un’eccezionale forza d’animo e il suo contegno salvò tutto: non volle che si sospendesse la sfilata delle truppe, continuò ad assistervi e tornò alla Reggia in carrozza. Nel pomeriggio uscì con tutta la famiglia, percorrendo le vie più popolose della città.
Il giorno seguente Ferdinando era sereno, a tratti persino ilare, nel ricevere i diplomatici che andavano a rallegrarsi per lo scampato pericolo. «Scrivete al nostro carissimo cugino che non è stato nulla, e che sto bene» riferì all’ambasciatore di Sardegna. Era troppo furbo per abbandonarsi a qualche sfogo col corpo diplomatico, o anche solo a espressioni meno che meditate.
L’episodio però lo scosse, inevitabilmente, sebbene l’inchiesta appurò l’assenza di qualsiasi congiura.
Da allora diventò più inquieto, cupo e sospettoso, e soprattutto crebbe la sua superstizione, sino a diventare mania. Tappezzò le sue stanze d’immagini di santi, corna e altri amuleti, e mise al bando chiunque fosse indiziato di iettatura. E Dio solo sa – a Napoli – quanti ve n’erano.
Ebbe una sola illusione, che l’accompagnò per tutta la vita e si rivelò fatale per la dinastia: la convinzione di poter vivere eternamente, di non dover morire mai.
Nel 1857 Re Ferdinando aveva 47 anni, ma pareva averne vissuti molti di più. I trambusti del 1848, l’attentato di Agesilao Milano e lo sbarco di Sapri ne avevano guastato il sangue e peggiorato le inclinazioni, lo avevano reso di gran lunga più vecchio della sua età.
Da qualche tempo non si sentiva bene. Dimagrito, incanutito, pingue, al punto da non poter più montare agilmente a cavallo né rimanervi a lungo. Di tanto in tanto avvertiva una gran spossatezza. Aveva però un pensiero fisso: dare moglie al figlio Francesco, l’erede al trono.
Nel gennaio del 1859 – mentre Cavour stringeva i rapporti con Napoleone III per la conquista del Regno del Lombardo-Veneto – Ferdinando conduceva in gran segreto le trattative per il matrimonio del suo primogenito, e le portò avanti con tanta discrezione che nulla trapelò se non a cose fatte, quando fu annunciato il fidanzamento con l’arciduchessa Maria Sofia di Baviera.
Una principessa vivace e ardita, cresciuta in un ambiente raffinato, non sembrava la figura più adatta a entrare nella Corte di Napoli, né a divenire moglie di un principe bonaccione, soggiogato da scrupoli religiosi e inesperto della vita. Ferdinando non badò a tanta disparità, e immaginò che avrebbe pensato lui all’educazione della principessa ereditaria, con quella presunzione e leggerezza tutta borbonica.
Ordinò che la sposa si presentasse a Manfredonia, per rinnovare la cerimonia che nel 1797 ebbe luogo a Foggia, quando Francesco I – allora principe ereditario, condotto da suo padre Ferdinando – sposò in prime nozze l’arciduchessa austriaca Maria Clementina, sbarcata appunto a Manfredonia.
Il Re stabilì di compiere il viaggio in una quindicina di giorni, distribuendo così le tappe: per la partenza, da Caserta ad Avellino, da Avellino a Foggia, da Foggia ad Andria, da Andria ad Acquaviva, da Acquaviva a Lecce, da Lecce a Bari; per il ritorno, da Bari a Barletta, e poi a Manfredonia, a Foggia, ad Avellino e infine a Caserta.
Né la Regina né i principi che lo accompagnavano, e neppure lo sposo, davano però segni di gaiezza. Mormoravano tra loro, confidandosi le rispettive paure per l’ostinazione, se non per il capriccio del Re, di compiere un viaggio così lungo nel cuore dell’inverno, in condizioni fisiche precarie.
Tosse, vomito, mal di stomaco, febbre alta, brividi di freddo, notti insonni e inappetenza furono le costanti del viaggio.
Nessuno capiva cosa affliggesse il Re.
Non si faceva in tempo a incidergli un ascesso che altri dieci se ne riformavano sul ventre e sulle gambe.
Le sofferenze non avevano tregua. Ogni movimento gli procurava dolori atroci, tra i quali rompeva in grida e invocazioni alla Madonna e ai suoi santi protettori.
Soffriva nel fisico, ma anche nello spirito, per il genere del suo male. Aveva sempre avuto orrore dei morbi infettivi e ora si ritrovava addosso un morbo che a lui stesso faceva ribrezzo.
Congestioni polmonari e ascessi si succedevano, senza che alcun rimedio avesse efficacia.
I medici De Renzis e Trinchera individuarono l’origine del male in una raccolta di pus nella regione iliaca destra, per effetto della coxalgia. Decisero di operare nella regione posteriore della coscia, nella speranza di determinare una più facile fuoriuscita di pus.
Ma, eseguita l’incisione, non si trovò materia. Si dovette constatare di aver sbagliato il punto del taglio, sospendere l’intervento, medicare la ferita e non far null’altro per qualche giorno.
I medici decisero per un secondo taglio, sul femore, con un esito stavolta meraviglioso, perché uscirono parecchie libbre di marciume.
L’operazione confermava la nuova diagnosi, ma troppo tardi. Non si era dato il giusto peso a fenomeni che richiedevano la pronta mano del chirurgo, ma in quei tempi la chirurgia non era ancora arrivata al punto di aprire l’addome, e nessuno dei medici se la sentiva di mettere le mani sul Re, né era facile persuadere il Re a farsi toccare dai ferri.
A Napoli si sapeva che Ferdinando era indisposto, anche se nessuno immaginava la gravità del caso.
Alle guardie d’onore e alla servitù si era imposto il più rigoroso silenzio.
Si accreditava la tesi che tutto dipendesse dai disagi del viaggio e dalla rigidità della stagione, ma inevitabilmente, in un Regno eccitabile e chiacchierone, iniziò a diffondersi la voce che si trattasse di una situazione parecchio grave.
Si parlava ora di miglioramento ora aggravamento, di maggiore o minore accentuazione dei disturbi consueti, ma dell’aggravamento non si conosceva la misura e i miglioramenti si esageravano. Ogni linguaggio scientifico era bandito per volere della Regina, e intorno alla malattia del Re finì per crearsi più d’una leggenda.
L’agitazione di Ferdinando cresceva di giorno in giorno, e con l’agitazione peggiorava il suo stato fisico. Barba e capelli incolti, sempre più canuti, e un incedere abbattuto. Il suo orgoglio di Sovrano e il suo puntiglio di napoletano si ribellavano al pensiero che i liberali avrebbero gioito nel vederlo tornare a Napoli in quelle condizioni.
Una nave lo prelevò per riportarlo nella capitale, dove sbarcò mezzo cadavere. Rispondeva con sforzo agli evviva del popolo, agitando un fazzoletto bianco, fuori lo sportello della carrozza.
Il Re accentuò la già pronunciata tendenza alle pratiche religiose, che non erano bigottismo, ma bisogno d’ingraziarsi la divinità affinché gli restituisse un minimo di pace.
Ascoltava la messa ogni giorno e si confessava di frequente, tanto che monsignor De Simone non si allontanava mai da lui; recitava il rosario tutte le sere, con la Regina e i figli; con un segno della mano, prima di andare a letto, baciava le immagini sacre che popolavano le camere precedenti a quella in cui dormiva.
Il primo bollettino sulla salute del Re apparve nel Giornale Ufficiale il 12 aprile, quando la gravità della situazione non si poteva più nascondere.
Ferdinando continuava a interessarsi agli affari del Regno e ai fatti della guerra, anche nei giorni di maggior sofferenza.
Il Piemonte si era messo a capo della rivoluzione italiana per cacciare l’Austria dal Lombardo-Veneto; Napoleone III lo sorreggeva con tre corpi di armata nella penisola e si preparava a scendervi lui stesso; il 29 aprile 1859, da Milano, il conte Giulay proclamava di non portar «guerra ai popoli né alle nazioni, ma a un partito provocatore, che sotto il manto specioso di libertà avrebbe finito per toglierla ad ognuno, se il Dio dell'esercito nostro non fosse anche il Dio della giustizia».
La tempesta si delineava, ma Ferdinando confidava nella forza dell’Austria, a cui immaginava sarebbero venute in soccorso la Russia e la Prussia, e ancor più credeva nell’intangibilità dello Stato Pontificio.
Si cercava comunque di tenergli occulte, o di comunicargli con arte, le notizie che potevano turbarlo.
Il male procedeva inesorabile, la salute del Re peggiorava e le notizie sulla guerra non erano quelle desiderate. Fu invaso dalla paura, che manifestava apertamente. Convocava in camera il principe ereditario, gli indicava i veri e i falsi amici della dinastia, e lo ammoniva a non transigere con la rivoluzione, a non prender partito con l’Austria, ad aspettare gli eventi con serenità, perché il Regno rimaneva protetto su tre lati dall’acqua salata e su un lato dall’acqua santa.
Il Re conobbe qualche ora di calma nella serata del 21 maggio, ma dopo la mezzanotte peggiorò.
Monsignor Gallo ebbe l’incarico di prepararlo all’estrema unzione e alla benedizione del Papa.
Ricevuto l’olio santo, volle vedere la sua famiglia al completo, anche i più piccini, e con le lacrime agli occhi li abbracciò e li baciò tutti. Li fece avvicinare al letto, e a ciascuno rivolse preghiere speciali. Raccomandò al Conte d’Aquila di curare l’armata e rivolse al Conte di Trapani le stesse raccomandazioni per l’esercito. Solo al Conte di Siracusa non disse nulla, ma lo tenne qualche minuto stretto al petto e lo baciò più volte, tra le lacrime. Dal Principe di Satriano e dal Generale Ischitella, entrambi presenti, volle la promessa che avrebbero assistito e consigliato il nuovo Re.
Non si faceva più illusioni, si preparava alla morte con dignità.
La Regina non aveva pace, andava avanti e indietro, fuori di sé; il principe ereditario singhiozzava in un angolo; i principi e le principesse più grandi piangevano; il dolore aveva ammutolito Maria Sofia, sinceramente affezionata al suocero.
Era domenica 22 maggio 1859 e l’orologio segnava l’una e mezza dopo il mezzogiorno.
Il cadavere imbalsamato fu vestito con la divisa di Capitano Generale dell’esercito e collocato in una cassa aperta; fu quindi disceso per una scala segreta, la mattina del 28, e collocato in un carro militare che uscì dal portone a sinistra della Reggia di Caserta; il trasporto a Napoli si compì per ferrovia, senza clamori.
Ferdinando rimase esposto nella Reggia di Napoli negli ultimi tre giorni di maggio, coperto da un velo bianco. Nei primi due il pubblico fu ammesso a vederlo dalle 10 della mattina alle 6 della sera; nel terzo, dalle 8 a mezzogiorno. Il concorso fu immenso. Nella sala d’Ercole si riversò tutta Napoli, e anche le province vicine diedero un largo contributo di curiosi. Il cadavere fu trasportato a Santa Chiara nel pomeriggio del 31, e sepolto nelle tombe reali dopo una magniloquente orazione di Monsignor Salzano.
Gli ecclesiastici furono i padroni del rito, per rivendicare il secolare monopolio della Chiesa sulle celebrazioni funebri, contro le novità introdotte dal mondo borghese. Tutti i vescovi replicarono il funerale nelle rispettive diocesi, con la partecipazione di confraternite e congregazioni. Ogni chiesa era riccamente allestita, vi si edificavano mausolei e si adagiavano effigi.
La simultaneità del funerale in più luoghi aveva una valenza pedagogica da ancien régime – era l’esaltazione del potere borbonico, capace di raggiunge direttamente il popolo; ricordava che la ricchezza, la potenza e la gloria dei Re erano in uno con la felicità stessa di tutti i sudditi – e per due mesi si susseguirono ovunque cerimonie che simulavano la presenza del corpo del Sovrano, con catafalchi nelle chiese, drappeggi lussuosi e altri apparati celebrativi.
Le orazioni per Re Ferdinando furono pubblicate in numerose copie ed ebbero ben altri toni rispetto a quelle concepite per gli altri Sovrani borbonici. Gli oratori erano professionisti della celebrazione – spesso docenti di teologia o sacra eloquenza – sempre pronti a spostarsi da una chiesa all’altra. Con uno stile di gran presa sull’uditorio restituirono l’immagine di una monarchia sì assoluta, ma non dispotica, unica garanzia possibile di uno Stato di diritto.
Il 22 maggio 1859 Re Ferdinando II di Borbone non c’era più. Mancavano 355 giorni allo sbarco di Garibaldi in Sicilia, 473 alla partenza da Napoli di Re Francesco, 633 alla fine di un Regno.
– la tariffa per l'interno delle assicurate di peso tra 1 oncia e 1 oncia più ⅛ di oncia –
con gli esemplari del Cavalier Masini da 1, 2, 5 e 10 grana.
La lettera è indirizzata “Alle Sacri Mani di Sua Maestà Ferdinando 2° Re di Napoli”,
da tre sorelle rimaste orfane di padre, che di lì a poco hanno perso anche lo zio.
Alle tre donne sono rimasti solo i debiti da saldare.
Nessuno ne sollecitava il rimborso, sinché gli uomini erano in vita,
Le donne sono spaesate e confuse, disorientate:
non nei tempi e nei modi pretesi dai creditori.
«Siamo disposte a toglierci il pane dalle mani»
– scrivono nella loro supplica a Re Ferdinando –
se solo i creditori fossero disposti a pazientare.
Si rivolgono al Re, le tre donne,
quel Re il cui popolo «non ha bisogno di pensare»,
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