Il Re si è arreso, viva il Re!

 
«Sono forse io eterno e la corona mi deve stare inchiodata sul capo? 
Vecchia è a me la sventura. Oh, come si stava meglio a Gaeta!»
(Francesco II di Borbone, colloquio con Pietro Calà Ulloa, estate 1863)

«Io non dissimulo che sventuratamente il nostro esercito è demoralizzato e sconfidato; ma quando il Re si porrà alla testa, esso riprenderà il coraggio e la disciplina, e si rifarà delle patite sconfitte. E se pur sarà destino il soccombere, cadremo con onore, e ci salveremo dall’onta di fuggire d’innanzi ad un pugno di uomini, i quali altra forza non hanno, che il prestigio dell’ardito loro capo».

Il Capo del Governo borbonico Antonio Spinelli prospettava una resistenza armata a Garibaldi, nel Consiglio di Stato del 29 agosto 1860, dopo l’evaporazione dell’esercito napoletano in Calabria. Lo stesso suggerimento – con la stessa enfasi – proveniva dal Ministro di lungo corso Carrascosa. «Vostra Maestà monti a cavallo, e noi saremo tutti con Vostra Maestà; o cadremo da valorosi, o butteremo Garibaldi in mare».

Ma Spinelli non escludeva la possibilità di una ritirata strategica. «Che se Vostra Maestà pensasse invece lasciar la capitale, e provvedere altrimenti alla difesa dello Stato, lo faccia pure; ma prenda immediatamente le opportune disposizioni ed operi con la massima energia, perché ogni istante, che si perde, può compromettere le sorti del Regno».

Non aveva invece dubbi Don Liborio Romano, che spingeva per l’allontanamento del Re dalla capitale. «Che la Maestà Vostra si allontani per poco dal suolo e dalla Reggia dei suoi maggiori; che investa di una reggenza temporanea, un ministero forte, fidato, onesto, a capo del quale sia preposto, non già un principe reale, la cui persona, per motivi che non vogliamo indagare, ne farebbe rinascere la fiducia pubblica, ne sarebbe garentia solida degl’interessi dinastici, ma bensì un nome cospicuo, onorato, da meritar piena la confidenza della Maestà Vostra e del paese». E quel nome – ovviamente – non poteva che essere il suo.

Erano giorni di tristezza e confusione, d’incertezze e inquietudini, nella Reggia e nel Governo. Si incrociavano consigli opposti e proposte contradittorie, paure, sospetti e malignità. Re Francesco aveva dalla sua i castelli, la guarnigione, i lazzari e le influenze dei partiti borbonico e clericale. Sul versante opposto vi erano i battaglioni della Guardia Nazionale, l’autorità della camorra e l’esercito garibaldino in marcia verso Napoli.

Che fare? Revocare la Costituzione, spedire i nemici della dinastia fuori del Regno, fucilare Don Liborio e fronteggiare gli invasori per impedirgli l’ingresso nella capitale? O far la conta delle milizie fedeli, ripiegare nelle più sicure fortezze di Gaeta e da lì prepararsi a battagliare, ché in fondo sarebbe bastata una sola sconfitta di Garibaldi a segnare il tramonto della rivoluzione?

In uno degli ultimi Consigli di Guerra, presieduto dal Re stesso, il Generale Von Mechel manifestò tutte le sue perplessità sulla strategia di bloccare Garibaldi sulla via di Napoli, e a più forte ragione su ogni contrasto dentro la città. Ma né il Von Mechel né il Governo né altri avevano un’idea esatta delle forze in campo, che in effetti erano tutte a vantaggio dei borbonici.

«Il futuro storico dovrà bene fermarsi su questo punto» – scrive Raffaele de Cesare – «per determinare tutte le responsabilità militari di quei giorni. […]. Oggi […] si può bene affermare che né i comandanti dei forti ebbero mai ordine di bombardare Napoli, come generalmente si temeva e forse da taluni si crede ancora; né l’idea di tentare la difesa a Napoli fu messa innanzi con precisione e coraggio. Fu davvero desolante lo spettacolo, che presentavano in quei giorni i capi dell’esercito».

Nel trambusto del momento si diffuse la sensazione che a Napoli la rivoluzione sarebbe scoppiata in ogni caso, che i tumulti di piazza – quale ne fosse l’origine – avrebbero offerto il pretesto per l’intervento del Piemonte e delle Potenze europee.

Il margine di scelta sembrò assottigliarsi, sino a sparire: non rimaneva che lasciare Napoli, rinunciare alla difesa del Regno nella piana del Sele, tra Eboli e Salerno, e peggio che mai dentro Napoli stessa, per attuarla con più efficacia tra Capua e Gaeta.

Solo il vecchio Carrascosa non risparmiò al Re la più aspra delle verità. «Se Vostra Maestà mette il piede fuori di Napoli, non vi tornerà più».

«Dacché un ardito condottiero, con tutte le forze di cui l’Europa rivoluzionaria dispone,
ha attaccato i Nostri domini invocando il nome di un Sovrano d’Italia, congiunto e amico, 
Noi abbiamo con tutti i mezzi in poter Nostro combattuto 
durante cinque mesi per la Sacra indipendenza dei Nostri Stati. 
La sorte delle armi Ci è stata contraria. 
L’ardita impresa che quel Sovrano nel modo più formale protestava sconoscere, 
e che non pertanto, nella pendenza di trattative di un intimo accordo, 
riceveva nei suoi Stati principalmente ajuto ed appoggio,
quell’impresa, cui tutta l’Europa, dopo d’aver proclamato il principio di non intervenzione,
assiste indifferente, lasciandoci soli lottare contro il nemico di tutti,
è sul punto di estendere i suoi tristi effetti fin sulla Capitale.
Le forze nemiche si avanzano in queste vicinanze.
Forti sui Nostri diritti, fondati sulla storia, sui patti internazionali e sul diritto pubblico Europeo, 
mentre Noi intendiamo prolungare, finché ci sarà possibile, la nostra difesa, 
non siam meno determinati a qualunque sacrifizio 
per risparmiare gli orrori di una lotta e dell’anarchia
a questa vasta Metropoli, sede gloriosa delle più vetuste memoria
e culla delle arti e della civiltà del Reame.
In conseguenza noi moveremo col Nostro Esercito fuori dalle sue mura,
confidando nella lealtà e nello amore de’ Nostri Sudditi
pel mantenimento dell'orine e del rispetto all’autorità.
Nel prendere tanta determinazione sentiamo però allo stesso tempo il dovere,
che ci dettano i Nostri diritti antichi e incossussi, il nostro Onore,
l’interesse dei Nostri eredi e successori, e più ancora quelli dei nostri Amatissimi sudditi, 
ed altamente protestiamo contro tutti gli atti finora consumati 
e gli avvenimenti che sonosi compiuti o si compiranno in avvenire.
Riserbiamo tutt’i Nostri titoli e ragioni,
sorgenti da Sacri incontrastabili diritti di successione, e dai Trattati,
e dichiariamo solennemente tutti i menzionati avvenimenti e fatti nulli, irriti, e di niun valore.
Questa nostra protesta sarà da noi trasmessa a tutte le Corti, 
e vogliamo che, sottoscritta da noi, munita del suggello delle nostre Armi Reali, 
e consegnata dal Nostro Ministro degli Affari Esteri, 
sia conservata nei nostri Reali Ministeri degli Affari Esteri, 
della Presidenza del Consiglio del Ministri, e di Grazia e Giustizia, 
come un monumento della Nostra costante volontà 
di opporre sempre la ragione e il diritto alla violenza e alla usurpazione»
(Re Francesco II di Borbone, “Atto di protesta” del 6 settembre 1860)

 

 

 

Le navi napoletane approdano a Gaeta all’alba del 7 settembre.

La piazzaforte è un luogo sicuro, un punto strategico, e poi un po’ di scaramanzia napoletana non guasta. Da Gaeta, in passato, i Borbone hanno riconquistato il Regno, e il miracolo potrebbe ora ripetersi. Forse a Gaeta tutto sarà ribaltato, forse a Gaeta si scriverà una storia diversa: il Re potrà scrollarsi di dosso il nomignolo di Franceschiello, liberarsi del peso dellinesperienza e sin anche del ricordo ingombrante del padre Ferdinando.

Il primo atto ufficiale di Re Francesco è la formazione di un nuovo Ministero, in cui trovano posto tutti i servitori più fedeli: il generale Casella, Presidente del Consiglio, che gestisce anche gli Esteri e la Guerra; Pietro Ulloa, Guardasigilli; Leopoldo Del Re, capo della Marina; e poi Salvatore Carbonelli, che accetta di gestire le dissestate Finanze Reali, dopo il rifiuto di Statella e Caracciolo.

Il Gabinetto borbonico invia telegrammi a tutte le province del Regno, per informare i sudditi della persistenza dello Stato napoletano, dell’esistenza di un Governo che continua a operare dalla piazzaforte. Gli atti politici finiscono qui. La priorità passa alle operazioni militari.

Al comando del Generale Ritucci ci sono ancora 40.000 uomini, anche se l’armata è sfiancata nel fisico e nello spirito per i giorni di marcia e fame.

Ma il 19 settembre accade il prodigio di Caiazzo: i borbonici sconfiggono i garibaldini col supporto delle popolazioni e prendono il controllo di una zona strategica per lo spostamento delle truppe da Capua a Caserta; i soldati riscoprono la voglia di battersi; sembra finalmente arrivato il momento di organizzare un piano dattacco.

Paradossalmente è proprio il Re a fallire nell’obiettivo di motivare le truppe. Se Garibaldi esorta i suoi volontari a battersi come i Greci alle Termopili, Francesco usa un linguaggio pacificatore e a tratti venato di autocommiserazione, una differenza di stile che mostra tutta la distanza tra i rispettivi paradigmi ideologici: Francesco si prepara a un duello, Garibaldi a una guerra.

«Soldati!
Poiché i favorevoli eventi della guerra ci spingono innanzi
e ci dettano di oppugnare paesi dall'inimico occupati,
obbligo di re e di soldato m’impone di rammentarvi
che il coraggio ed il valore degenerano in brutalità ed in ferocia
quando non siano accompagnati dalla virtù e dal sentimento religioso.
Siate adunque generosi dopo la vittoria;
rispettate i prigionieri che non combattono ed i feriti e prodigate loro
quegli ajuti che è in vostro potere di apprestare.
Ricordatevi che le case e le proprietà nei paesi che occupate militarmente
sono il ricovero e il sostegno di molti che combattono nelle nostre file:
siate adunque umani e caritatevoli con gli infelici e pacifici abitanti,
innocenti certamente delle presenti calamità.
L’obbedienza agli ordini dei vostri superiori sia costante e decisa;
abbiate infine innanzi agli occhi sempre l'onore e il decoro dell’esercito Napoletano»
(Re Francesco II di Borbone)

Gli eserciti sincontrano all’alba di un cupo lunedì d’inizio ottobre. Dopo due ore di combattimento, la battaglia volge a favore del fronte napoletano. Gli avamposti garibaldini indietreggiano, la divisione borbonica di Tabacchi procede spedita, ansiosa di ricongiungersi alla squadra di Von Mechel per chiudere i nemici in una morsa fatale. I borbonici avanzano velocemente anche sul fronte orientale, e obbligano le camice rosse a retrocedere oltre il Monte Caro. A sera, tuttavia, la determinazione dei comandi garibaldini e l’arrivo delle riserve di volontari annullano il vantaggio dei soldati di Re Francesco. Inizia un arretrare lento ma costante, che già l’indomani vede le colonne intorno a Caserta sopraffatte dal fuoco nemico, con i Generali borbonici incapaci di attuare una controffensiva. Uno dopo l’altro, tutti i reparti vengono battuti, e alla fine della giornata la battaglia è conclusa. Le truppe garibaldine hanno perso più di tremila uomini, quelle napoletane la speranza.

La sconfitta sul Volturno segna la fine delle velleità di riconquista militare del Regno, ma Re Francesco spera ancora in un intervento diplomatico, convinto di esser vittima di un’aggressione ingiustificata.

Gli sguardi di tutta Europa sono rivolti a Varsavia, dove i tre Sovrani conservatori – l’Imperatore d'Austria Francesco Giuseppe I, lo Zar di Russia Alessandro II e il Re di Prussia Guglielmo I – sembrano sorreggere l’idea di una violazione del diritto internazionale. Persino Cavour è preoccupato dal simposio polacco. «Ce qui nous inquiète le plus pour le moment c’est Varsovie» scrive a Napoleone III.

Ma la Santa Alleanza non rinasce: Austria e Prussia non danno mano libera alla Russia nel Vicino Oriente; Vienna non fa concessioni alla Prussia in Germania, e non ottiene quindi l’avallo né di Berlino né di San Pietroburgo per una riscossa conservatrice in Italia. Heinrich von Treitschke – tra i massimi teorici dello Stato prussiano – arriva a presentare l’unificazione italiana come un modello di riferimento, e il suo artefice, il Conte di Cavour, come un maestro. Il Governo inglese entra di prepotenza nel dibattito, per stigmatizzare l’ostilità verso il nazionalismo italiano. La Francia rimane fredda, timorosa che ogni suo intervento possa interpretarsi come un tentativo di piazzare un napoleonide sul trono di Napoli.

A inizio di novembre la guerra in campo aperto e le mediazioni diplomatiche sono di fatto concluse. I borbonici sono stati battuti su ogni fronte. Non gli rimane che la difesa a oltranza.

Garibaldi sparisce dalla scena, i Generali piemontesi prendono il commando esclusivo delle operazioni. Enrico Cialdini riceve l’incarico di sferrare il colpo di grazia al nemico. Conquista Mola di Gaeta il 4 novembre, e chiede la resa dei borbonici, asserragliati nella fortezza.

Re Francesco rifiuta e la sua resistenza in condizioni disperate diventerà il mito unificante del patriottismo napoletano: l’aggressione straniera e la fortezza assediata, il sangue versato per l’indipendenza del Regno e la difesa della dinastia, il coraggio e l’onestà di tanti fedeli della casa borbonica in contrapposizione al tradimento dei corrotti,e poi la regina sugli spalti, l’esercito di popolani e la comunità sotto le bombe.

«[L]o spirito militare della guarnigione è stato commendevolissimo» – scriverà il Maggiore Quadel, nel suo Giornale della difesa di Gaesta – «Non la scarsezza della paga e della razione dei viveri, non la deficienza delle vestimenta, non gli incessanti e sempre crescenti disagi, non i faticosi lavori, non le malattie e soprattutto quelle gravissime del tifo, non le perdite ed i pericoli quotidiani ne hanno abbattuto un sol momento l’energia».

 

I primi scontri avvengono tra l’11 e il 12 novembre. A Montesecco, un istmo di circa 600 metri, i borbonici sono decimati e accerchiati dalle forze sabaude. Ciò che resta dell’esercito si rinchiude nella fortezza di Gaeta.

Il 13 novembre inizia l’assedio, a colpi di bombardamenti.

Il 19 novembre c’è una tregua, per consentire agli abitanti del borgo di lasciare le proprie case e cercare riparo nelle zone limitrofe.

All’alba del 29 novembre un manipolo di soldati borbonici tenta una sortita sul colle dei Cappuccini. Un bombardamento sarebbe stato più sicuro ed efficace, ma la venerazione di Re Francesco per una chiesa del borgo – che rischiava d’esser colpita dai tiri approssimativi delle artiglierie – fa ripiegare sulla più incerta azione di terra. Il colpo di mano allontana i bersaglieri piemontesi, ma a caro prezzo di vite umane, e fallisce comunque nell’obiettivo d’incendiare il borgo.

Ai primi di dicembre su Gaeta aleggia un pericolo più terribile delle granate: il tifo. L’epidemia si diffonde nella piazzaforte, fa vittime tra militari e civili, cui si aggiungono le morti per l’intensificarsi dei bombardamenti piemontesi. Le condizioni igieniche diventano inumane. È impossibile lavarsi e cambiarsi gli indumenti, si dorme in locali fetidi, i pidocchi spadroneggiano.

Nella notte tra il 4 e il 5 dicembre, sotto una pioggia torrenziale, l’esercito borbonico compie una seconda sortita fuori della fortezza, per far saltare un gruppo di case che nasconde i bersagli dei cannoni napoletani. La missione riesce, le case crollano.

L’8 dicembre c’è una tregua per l’Immacolata, festività cara alle truppe meridionali. Re Francesco emana il più celebre dei suoi “Proclami”, in cui denuncia ancora una volta l’aggressione piemontese; Vittorio Emanuele arriva a Mola di Gaeta, per toccare con mano i progressi delle operazioni militari; Napoleone III fa recapitare un messaggio di conciliazione a Francesco, per indurlo alla resa. Il Re di Napoli rifiuta e rilancia: chiede all’Imperatore di lasciare la flotta francese in sosta a Gaeta, per poter difendere l’onore militare del Regno e della dinastia. Napoleone acconsente, colpito dalla dignità della risposta.

La tregua regge sino alla notte tra il 12 e il 13 dicembre, quando i sabaudi equivocano l’uscita dalla piazzaforte di alcuni disertori, interpretandolo come un atto ostile, e aprono il fuoco. I soldati borbonici tra le mura, nel sentire gli spari, rispondono a fucilate, presumendo un attacco nemico.

Il 14 dicembre Re Francesco scioglie due reggimenti della Guardia reale, in esubero rispetto allo sforzo bellico, e congeda una cinquantina di soldati da ogni battaglione di “Cacciatori”.

Dal 15 dicembre i bombardamenti s’intensificano, da una parte e dall'altra, e non si fermano nemmeno a Natale, sotto la neve. Sempre più spesso si vede la Regina Maria Sofia, sui bastioni della città, a soccorrere i feriti e dar conforto ai soldati. Diventerà l’eroina di Gaeta. La Francia presenta un’altra proposta di resa a Re Francesco, che la respinge nuovamente. 

Il 31 dicembre è l’ultimo giorno concesso da Re Francesco a chi vuol abbandonare la fortezza. Gli Ufficiali gli indirizzano un messaggio con cui esprimono la ferma volontà di «rinnovare l’omaggio della nostra fede innanzi al vostro trono, reso più venerabile e più splendido dalla sventura», per «mostrare all’Europa intera che se molti fra noi ànno col tradimento o viltà macchiato il nome dell’Armata Napolitana, grande fu pure il numero di quelli che si sforzarono di trasmetterlo puro e senza macchia alla posterità».

Il 7 gennaio una granata colpisce il palazzo reale. I Sovrani si trasferiscono in una casamatta.

Si arriva a nuova tregua, mediata ancora da Napoleone III: una cessazione delle ostilità dall’8 al 19 gennaio, in attesa del possibile accordo di capitolazione.

Ma prima delle cinque del pomeriggio – l’orario concordato per la sospensione delle ostilità – Cialdini dà un’ultima dimostrazione di forza, e l’8 gennaio sarà una delle giornate più intense dell’assedio. «Le batterie della piazza furono danneggiate pochissimo, ma la città fu a metà distrutta» – scriverà il memorialista borbonico Giuseppe Buttà – «Dovevamo parlare ad alta voce per intenderci tanto era il rombo dei cannoni e lo scoppio dei proiettili nemici. Non vi fu luogo risparmiato. Molti civili perivano sotto le rovine delle case».

Sono giorni di pausa, ma solo nei bombardamenti. Le diplomazie non si fermarono. I Borbone sperano sempre in un intervento straniero, e la Regina Maria Sofia intercede presso l’Imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III, con uno scambio epistolare. Cavour ne viene a conoscenza e chiede spiegazioni direttamente all’Imperatore.

All’avvicinarsi del 19 gennaio Re Francesco decide per una resistenza a oltranza. «Ritirandomi io cederei una Fortezza ancora intatta, oscurerei il mio onore militare, e per un eccesso di prudenza rinunzierei a tutte le eventualità e a tutte le speranze dell’avvenire».

Il 19 gennaio le sette navi da guerra francesi lasciano la rada di Gaeta, i piemontesi mettono in atto un blocco navale per isolare la città, i napoletani si preparano a tenere botta.

All’alba del 22 gennaio ripartono i bombardamenti. Gaeta è in macerie, il tifo continua a devastare civili e militari, i borbonici sono chiamati a uno sforzo di resistenza sovraumano.

Il 27 gennaio il Ministro della Marina francese telegrafa a Gaeta per informare il Comandante della Piazzaforte che nel porto di Napoli è ancorata la nave francese Mouette, a disposizione della famiglia reale borbonica per qualsiasi necessità.

Il 4 febbraio una cannonata della batteria piemontese “Madonna di Conca” prende in pieno un deposito di munizioni della batteria “Cappelletti”: tutto quel che vi è intorno va distrutto. I piemontesi continuano a sparare in quella zona, per rendere impossibili i soccorsi e accrescere i danni. I borbonici versano ormai in una situazione senza alcuna via d’uscita, e chiedono una tregua di due giorni.

Il 5 febbraio è la giornata «più fatale dell’assedio», nelle parole di Charles Garnier. Nel pomeriggio viene colpita in pieno la polveriera della batteria “Sant’Antonio”. Lo scoppio fa tremare la terra per parecchi chilometri, le dense colonne di fumo e polvere diffondono un’oscurità inquietante. Il bastione e le case tutto intorno scompaiono. Una voragine inghiotte cadaveri, brandelli umani e feriti urlanti.

Il 9 febbraio i bombardamenti ripartono, il 10 si riunisce nuovamente la commissione di difesa borbonica. All’unanimità si decide per la resistenza, anche se non è più possibile stimarne una tempistica.


L’11 febbraio l’Imperatrice Eugenia supplica la Regina Maria Sofia di accettare la resa di Gaeta, visto lo stallo politico e diplomatico. Re Francesco cede.

Il 12 febbraio, a Castellone di Mola, prendono il via i negoziati per la capitolazione, ma Cialdini resta scettico: vede nella dichiarata resa solo un inganno borbonico per guadagnare tempo, e prosegue con i bombardamenti.

Il 13 febbraio, alle tre del pomeriggio, quando le condizioni della resa sono già state decise, i piemontesi bersagliano la fortezza. Un proiettile colpisce una polveriera e il laboratorio attiguo, la batteria napoletana “Transilvania” esplode: l’ultimo boato dell’assedio.

«Si domanderà se l’onore è salvo?
Da molto tempo lo era, da molto tempo non si combatteva più per l’onore.
Sulle tombe di tanti bravi che hanno sofferto con rassegnazione inalterabile,
e che sono morti con una magnanima semplicità sulle rovine d’una città 
che si è difesa 100 giorni con risorse così limitate, con mezzi sì sproporzionati,
io, straniero, semplice testimone, ma non testimone insensibile,
affermo che l’assedio di Gaeta sarà una delle più belle pagine dell’istoria contemporanea.
La gloria sarà, non per i vincitori, ma per i vinti,
e non vi è uomo di cuore che ricusi d’inchinarsi con rispetto
innanzi la guarnigione come innanzi le Loro Maestà»
(Charles Garnier, giornalista francese, diarista dell’assedio di Gaeta)

La mattina del 14 febbraio 1860 il cielo è cupo a Gaeta, come se il sole abbia voluto nascondersi per assecondare un’agonia ora giunta al termine.

Francesco e Maria Sofia escono dalla casamatta e attraversano un corridoio formato da due schieramenti di soldati napoletani con alle spalle altri commilitoni e cittadini di Gaeta. I soldati, laceri e smunti, si abbracciano, piangono e gridano «viva ’o Re». Alcuni si gettano ai piedi dei Sovrani, gli baciano le mani tra i singhiozzi. La popolazione, commossa, sventola i fazzoletti.

Sulla porta di mare, dove li attende il piroscafo francese Mouette, messo a disposizione da Napoleone III: direzione Terracina, e da lì dritti verso le mura amiche della Roma papalina, ospiti di Pio IX.

L’inno napoletano di Paisiello sovrasta il vociare della folla, la nave prende il largo, l’immagine del porto diventa una fotografia sempre più sfocata.

I fanti piemontesi delle Brigata Regina entrano nella fortezza di Gaeta, al comando del Generale De Regis. Sulla Torre d’Orlando viene ammainata la bandiera borbonica bianco-gigliata e issato il tricolore con la croce dei Savoia.
 
Lettera assicurata del 14 febbraio 1861, da Vallo a Salerno, affrancata per 6 grana,
con tre esemplari da 2 grana dei De Masa, annullati con timbro “a svolazzo” di tipo 4.
Gaeta è capitolata, il Regno borbonico è scomparso,
ma il Regno d’Italia non esiste ancora, non ufficialmente.
O forse ci sono entrambi, il Reame di Napoli e il Regno d’Italia:
è il 14 febbraio, il giorno successivo alla caduta di Gaeta,
e tre francobolli napoletani viaggiano accanto a un timbro dei Savoia,
che proclama Vittorio Emanuele II come primo Re d’Italia.

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