Il Cavalier Masini, incisore della Real Casa
Nella Napoli borbonica dell’800 – la Napoli dei Ferdinando e dei Francesco – un ducato valeva dieci carlini, un carlino corrispondeva a dieci grana, e per fare un grano ci volevano quattro tornesi.
Un rotolo di pane – circa ottocento grammi – costava dai 3 ai 6 grana; con 2 o 3 grana si comprava un litro di vino; per la carne servivano dai 9 ai 15 grana al rotolo; le trattorie migliori «danno il pasto da grani 40» – si legge nel Manuale del forestiero in Napoli, del 1845 – «le altre sono mediocri e hanno lista di vivande co’ prezzi al margine».
Nell’ottobre del 1861 una donna si lamenta col fratello – il Barone Sardi –
La giornata di un contadino era pagata intorno ai 18 grana, un operaio specializzato arrivava a guadagnare tra i 20 e 30 grana, e a un colonnello di fanteria era riconosciuta una retribuzione di 105 ducati al mese.
«La prima volta che mi portarono lo stipendio mi sentii ricco» – racconta un funzionario borbonico, poi transitato nella burocrazia del Regno d’Italia – «Sessantacinque ducati, e io non ne spendevo più di venti! Ero a Santamaria, e pagavo il fitto di casa per la mia famiglia ducati sei al mese».
Le cravatte si vendevano a 55 grana; un dizionario latino-italiano ne costava 70; i napoletani più agiati pagavano 6 carlini per una sedia numerata in platea al San Carlo.
Nei Comuni si era soliti offrire “un caffè” ai funzionari di Polizia, delle Intendenze e delle Dogane, quando si presentavano per un’ispezione: una decina di ducati per evitare angherie e soprusi, o per mettervi fine, o per avere dei favori.
Alla stazione di Nocera, andando a Napoli, i viaggiatori passavano per una porta sorvegliata da un birro, incaricato di controllare i passaporti.
Chi era avvezzo al rituale gli metteva in mano 5 grana o 1 carlino, e il birro non si dava neppure la pena aprire il documento.
Ma chi non conosceva l’uso subiva un sindacato comico e implacabile. Il birro fingeva di verificare il passaporto, per poi squadrare il malcapitato con aria indagatrice. «Questo non è il vostro naso, questi non sono i vostri occhi» e via così, finché quello non gli lasciava scivolare il carlino nelle mani, e solo allora il birro chiudeva il passaporto e lo riconsegnava al titolare. «Camminate, tutto è in regola».
Nel 1838, tre mucche e due buoi costavano 206 ducati.
Alla fiera di Caserta, Re Ferdinando negoziò personalmente l’acquisto di due puledri. «Quanto ne vuò di sti pulidri?». L’allevatore si trovò in imbarazzo. «Con vostra Maestà non si fa prezzo». Ma il Re insistette, e l’allevatore chiese allora 500 ducati. Ferdinando sbuffò. «Ssò troppo: te ne dò quattociento, e te faccio no bello regalo».
L’esercito napoletano – 60.000 uomini in tempo di pace, con un potenziale di 100.000 in caso di guerra – assorbiva più della metà delle entrate del Regno: 18 dei 30 milioni di ducati.
Nel 1848 i soldati napoletani avevano tutelato l’onore dei Borbone e mostrato la più devota soggezione al Re, eppure Ferdinando non aveva fiducia che nei reggimenti svizzeri, entrati nel Regno quando ne uscirono gli austriaci, nel 1825.
La loro origine politica li rendeva il più sicuro puntello del trono, la milizia più dinastica dell’esercito, quindi la favorita: quattro guardie svizzere costavano quanto sette napoletani, e l’intero reggimento svizzero pesava sul bilancio del Regno più di 600.000 ducati l’anno.
«Mi domando come vivono qui».
È il 18 febbraio 1857, quando il romanziere Herman Melville, sul ponte di un vecchio vaporetto, avverte la prossimità di Napoli: «soon smelt the city».
Lo scrittore sbarca nel clangore di una città che gli si rivela a piccoli sorsi. Grandi folle, strade belle, edifici alti e caffè affollati gli ricordano Broadway. S’affastellano negozi di lotterie, tempestati di icone di vergini e santini, in una suggestiva miscela di sacro e profano. E poi «il Vesuvio a dorso di cavallo», – il cui cratere è come una «liquirizia congelata» – fino a Pompei, «un sermone incoraggiante», che dice di amare più di Parigi.
Ma si percepisce anche un sottofondo di tensione: scariche di baionette, sentinelle militari in continua ronda e cannoni puntati non già in direzione del mare, verso un nemico esterno, ma sulla città, per scoraggiare possibili rivolte.
È carnevale, sì, e tuttavia non si respira aria di festa. Si viene da un anno travagliato: nel novembre del 1856 il barone Francesco Bentivegna è stato giustiziato, insieme ad altri cospiratori, per aver spalleggiato le insurrezioni in Sicilia a favore dell’unità d’Italia; l’8 dicembre il fante Agesilao Milano ha rotto le righe di una parata militare, per trafiggere Re Ferdinando con una baionetta; il 17 dicembre l’esplosione della polveriera del molo militare ha ucciso diciassette tra ufficiali e soldati, arrivando a rompere addirittura i vetri delle finestre del Palazzo Reale; ii primi di gennaio, nel porto, è saltata in aria la fregata Carlo III, carica di soldati e munizioni.
Melville andrà via da Napoli dopo una settimana, il 24 febbraio, avendo sciolto da sé il suo dubbio iniziale. «È la più gaia città del mondo. Non ci sono equipaggi più splendidi di questi, né beltà più altezzose… “Lasciateci mangiare, bere e stare allegri perché domani dovremo morire” – questo sembra essere l’insegnamento che i napoletani hanno tratto dallo scenario in cui vivono».
Su Napoli – sul suo popolo, sugli usi e i costumi, sull’organizzazione sociale – cadono da secoli i giudizi più disparati, come non avviene per nessun’altra città del mondo: viaggiatori e diplomatici, letterati ed archeologi, novellatori e pubblicisti, uomini sentimentali ed eruditi, arrivati d’ogni parte del mondo, hanno creato ognuno per sé una narrazione convenzionale od unilaterale, con un corredo di esagerazioni, di pregiudizi, di critiche.
Napoli delude profondamente lo scrittore britannico Charles Dickens, in visita nel 1845. «La vita per le strade non è pittoresca e insolita neanche la metà di quanto i nostri sapientoni giramondo amino farci credere» – scrive in una lettera all’amico e biografo John Forster – «Che cosa non darei perché solo tu potessi vedere i lazzaroni come sono in realtà: meri animali, squallidi, abietti, miserabili, per l’ingrasso dei pidocchi: goffi, viscidi, brutti, cenciosi, avanzi di spaventapasseri».
La Napoli di Dickens è tutta rumore, miseria, confusione e sporcizia. «Ad accrescere il frastuono e la baraonda contribuiscono burattinai che mettono in scena le storie di Pulcinella, declamatori di poesia, buffi con chitarra, cantastorie e una serie di teatrini di poco prezzo, con pagliacci e impresari, tamburi e trombe, tele con sopra dipinte le meraviglie mostrate dentro e folle entusiaste che si accalcano di fuori. Lazzaroni, in abiti di stracci, dormono sdraiati nei vani delle porte, nelle fosse di scolo, sotto gli archi. I signori, ben vestiti, scarrozzano su e giù per via Chiaia o passeggiano nei giardini pubblici, e tranquilli scrivani, appollaiati dietro i propri deschetti e calamai, sotto il portico del Gran Teatro di San Carlo, attendono in mezzo alla strada i loro clienti. Tutto il fervore che si svolge all’aperto è possibile vedere sulla luminosa via del Mare, dove le onde del golfo brillano allegramente, al tramonto i pranzi a base di maccheroni, la vendita di fiori che va avanti tutto il giorno, e accattonaggi e furti per ogni dove e a ogni ora».
Annota che «tutto a Napoli viene espresso mediante gesti», che «le cinque dita formano da sole un ricco linguaggio», ma sono note di colore che non valgono ad alleviare i suoi umori, permeati da fastidio e moralismo: «vecchi cadenti» che presidiano le catacombe, guide locali incapaci per un’impervia e avventurosa gita al Vesuvio, preti paganeggianti che officiano ogni tipo di rito, perfino le estrazioni del lotto, con cui il popolino si rovina da solo.
Poche note benevole gliele strappano la bellezza del golfo, il fascino selvaggio del Vesuvio e le antiche e leggiadre visioni di Torre del Greco, Ercolano, Pompei, Sorrento, Castellammare di Stabia.
Ma alla fine prevale il boicottaggio dell’oggettività delle cose viste, di chi non vuol abbandonarsi al pittoresco di cui la città gronda, per scavare piuttosto sotto questa patina, in favore di una lettura che si sarebbe potuta avere anche senza aver mai messo piede a Napoli. «Noi, che pur siamo amanti e ricercatori del pittoresco, non dobbiamo fingere di ignorare la depravazione, la degradazione e la miseria a cui è irrimediabilmente legata l’allegra vita di Napoli! Pur dipingendo e celebrando in versi in eterno, se volete, le bellezze di questo lembo di terra bellissimo e amenissimo, cerchiamo, come è nostro dovere, di sviluppare la nuova visione di un pittoresco che abbia dentro di sé una qualche traccia del destino e delle capacità umane! Ed io credo che si possa sperare di trovarlo più fra il ghiaccio e le nevi del Polo Nord che in mezzo al sole e allo splendore di Napoli».
Di Napoli ne aveva restituito ben altra immagine – nella più classica descrizione da cartolina – Johann Wolfgang von Goethe, in visita nel 1787. «Avvicinandoci a Napoli, l’atmosfera si era fatta completamente sgombra di nubi e noi ci trovammo veramente in un altro mondo. Si dica o racconti o dipinga quel che si vuole, ma qui ogni attesa è superata: la riva, la baia, il golfo, il Vesuvio, la città, le vicine campagne, i castelli, le passeggiate… non sarà mai del tutto infelice chi può ritornare, col pensiero, a Napoli».
Viene colpito dal temperamento di un popolo «di spirito vivacissimo» e «di un intuito rapido ed esatto», incline ai festeggiamenti, alle musiche, alle processioni, e senza troppe preoccupazioni. «Tutti vivono in una specie di ebbrezza e di oblio di sé stessi. Tutti sono sulla strada, tutti seggono al sole finché finisce di brillare».
Contrasta il pregiudizio di chi liquida come oziosi «tutti quelli che non s’arrabattano a lavorare per l’intero giorno», ché a Napoli la gente lavora per vivere, e non viceversa, con l’obiettivo di vivere bene, senza eccesso di pensieri, senza inutili tribolazioni. «Riscontro in questo popolo un’industriosità sommamente viva e accorta, al fine non già ad arricchirsi ma di vivere senza affanni».
E persino la morte si trasfigura nella naturale estensione della vita, nel luogo dove si vuole solo vivere felici. «E così come vivono, seppelliscono anche i loro morti: nessun lento corteo nero turba l’armonia di questa generale vivacità».
Racconta di aver visto «il funerale di una bimba», in cui la tristezza dell’evento veniva sovrascritta da un rituale colorato e speranzoso. «Un gran drappo di velluto rosso, con abbondanti ricami in oro, copriva un largo feretro su cui era deposta una piccola cassa lavorata a intaglio, tutta fregi dorati ed argentati; la salma vestita di bianco era nascosta da un subisso di nastro rosa. Ai quattro spigoli della cassa quattro angeli, ciascuno alto circa due piedi, reggevano sulla morticina grandi fasci di fiori, ed essendo assicurati alla base con semplici fili di ferro, dondolavano su e giù ad ogni scossone della bara, come se spandessero miti, vivificanti olezzi di fiori; e dondolavano sempre più energicamente man mano che il corteo procedeva accelerando il passo, dietro ai preti ed ai chierichetti il che correvano più che camminare».
Usi e costumi napoletani lo influenzano al punto da suscitargli lo smarrimento della propria identità. «Anche a me qui sembra di essere un altro. Dunque le cose sono due: o ero pazzo prima di giungere qui, oppure lo sono adesso».
Non gli sfuggono comunque le contraddizioni della città e del suo popolo, che distilla nel più classico dei contrasti. «L’orribile accostato al bello, il bello all’orribile, si annullano a vicenda e finiscono per produrre una sensazione d’indifferenza. Non v’ha dubbio che il napoletano sarebbe un altr’uomo, se non si sentisse prigioniero fra Dio e Satana».
Questa Napoli borbonica, dalle contraddittorie dinamiche sociali ed economiche, rimaneva un Regno tranquillo, con un’aristocrazia priva di potere politico, una borghesia agraria lieta d’esser la meno tassata d’Europa, un ceto medio pago di avviare i propri figli alla carriera amministrativa e giudiziaria, e una plebe rurale e urbana felice di vedersi garantito il lato materiale dell’esistenza.
«Il mio popolo non ha bisogno di pensare» – sentenziava Re Ferdinando II – «Il mio popolo obbedisce alla forza e si curva, e io m’incarico di aver cura del suo benessere e della sua dignità, ma guai s’egli si raddrizzasse sotto gl’impulsi di questi sogni, che sono sì belli nei sermoni dei filosogi ed impossibili in pratica! Coll’ajuto di Dio, io darò al mio popolo la prosperità e l’onesta amministrazione cui ha diritto, ma io sarò re solo e sempre».
Nel gennaio del 1857 il Governo borbonico istituisce una Commissione per valutare «tutti gli immegliamenti che sia necessario od utile di arrecare nell’Amministrazione Generale delle Regie Poste e de’ Procacci».
Nella relazione al Consiglio dei Ministri – consegnata nel mese di aprile – si afferma «il principio dell’uniformità della tassa, qualunque fosse la distanza» – in contrapposizione al vigente costo proporzionato alla distanza – giacché interpretare la «tassa postale come un dazio […] o come il rimborso della spesa del trasporto delle lettere» conduce comunque a un «principio di uniformità assoluta».
Rimane invece la graduazione del costo in funzione del volume della lettera (sino a due fogli) e del peso (se si superano i due fogli) in cui il “foglio” era formato da due pagine, quattro facciate (una pagina – la sovracoperta – con l’indirizzo e l’affrancatura, l’altra col testo della lettera).
Il Real Decreto N. 4210 del 9 luglio 1857 ufficializza l’introduzione del francobollo, ne fissa la data di utilizzo all’1 gennaio 1850 e disciplina le nuove tariffe postali.
Il 12 agosto 1857 il Ministro delle Finanze, Salvatore Murena, invia istruzioni operative al Ministero della Guerra, all’Amministrazione delle Poste, alla Zecca e all’Amministrazione di Contabilità affinché ogni istituzione assicuri – per la propria parte – l’entrata in circolo del francobollo per l’inizio del nuovo anno. Raccomanda – in particolare – la «massima urgenza di procedersi, nel Gabinetto di Incisione della Regia Zecca, alla formazione di sette cunei o punzoni necessarii per la incisione dei bolli di posta stabiliti con Real Decreto del 9 luglio ultimo […] dovendo i suddetti punzoni esser pronti fra un mese».
Nelle intenzioni, quindi, i sette conî si dovrebbero realizzare nel Regia Zecca, verosimilmente per ragioni di sicurezza, ma il 22 agosto la stessa Zecca comunica al Ministro l’incapacità del Gabinetto di Incisione di realizzare i conî in autonomia, e di aver pertanto contattato l’Istituto di Belle Arti di Napoli – nelle persone dei professori Tommaso Aloysio Juvara e Francesco Pisante – per l’esecuzione del lavoro.
Tre giorni dopo, il 25 agosto, l’Amministratore Generale delle Poste, Vincenzo De Sangro, informa il Ministro delle Finanze che Juvara e Pisante hanno declinato l’incarico, «senza nemmeno indicare da chi dovesse farsi capo». Il De Sangro fornisce allora al Ministro Murena le referenze dello «incisore Cavaliere Giuseppe Masini, persona di piena mia fiducia e della quale si servono in tutte le occorrenze i Principi Reali essendo incisore della Real Casa», e il 28 agosto riceveva l’autorizzazione a ingaggiarlo.
Il 31 agosto 1857 il Cavalier Giuseppe Masini – un figlio d’arte (il padre era incisore) di notevole esperienza (già 39 anni d’età) – firma il contratto per l’esecuzione dei conî.
Nel laboratorio del Masini, al civico 46 di via Santa Caterina a Chiaia, vedono così la luce i primi francobolli borbonici, i francobolli del Regno di Napoli, «quei capolavori dell’arte del bulino» – nell’opinione di Emilio Diena – che «per l’esecuzione dei simboli araldici, per l’esatta forma dei caratteri, e per il tratteggio accurato, offrono senza dubbio un pregio artistico non comune», e conferiscono all’emissione «una fisionomia tutta propria».
L’emissione napoletana contava sette esemplari, dal ½ grano al 50 grana, inframmezzati dai valori da 1, 2, 5, 10 e 20 grana, stampati in tinta uniforme – un sobrio rosa che mostrerà varie sfumature per le diverse proporzioni dei componenti della miscela – probabilmente per evitare affrancature di colori inneggianti all’unità d’Italia, sebbene negli atti ufficiali non vi siano riferimenti a sequenze cromatiche indesiderate.
Masini personalizzò la serie incidendo le lettere del suo nome accanto al tassello del valore di ogni esemplari – la “G” sul ½ grano e a seguire “M”, “A”, “S”, “I”, “N”, “I” sui pezzi successivi – forse per ragioni di sicurezza, o più probabilmente per vanità, ma ogni modo creando un segno distintivo che non ha eguali in altre emissioni.
«La Commessione si è primieramente occupata dell’esame della convenienza di adottarsi il sistema del franco bollo, che è ormai in uso presso quasi tutti gli altri Stati di Europa».
La “Relazione” della Commissione governativa riconosceva il ritardo dell’amministrazione borbonica sulla novità dell’epoca, quando le scelte degli altri Stati avevano già determinato una tendenza nella scelta delle vignette dei francobolli.
Se il francobollo era anche un’affermazione di sovranità, un modo per dire “qui comando io”, l’immagine del potere si era fino ad allora concretizzata negli stemmi della dinastia regnante, con la sola eccezione degli Stati Sardi, che vi avevano preferito l’effigie del Re. Del tutto peculiare era stata la scelta del Granducato di Toscana, con la rinuncia a ogni riferimento politico in favore delle tradizioni di Firenze e della sua simbologia, del Marzocco.
I francobolli di Napoli ibridarono scelte ortodosse ed eterodosse: da un lato si ricalcò il classico modello degli stemmi dinastici, con l’emblema dei Borbone sintetizzato nei tre gigli e collocato al centro della vignetta; dall’altro si diede risalto alla storia dei luoghi su cui si esercitava il potere, con le icone del Cavallo sfrenato (simbolo di Napoli) e della Trinacria (simbolo della Sicilia).
Il cavallo è il simbolo storico di Napoli; ha origine nel Corsiero del Sole, un animale leggendario immortalato in una statua in bronzo in Piazza Sisto Riario Sforza – tra Via Duomo, all’epoca Via del Sole, e Via Tribunali – dove il mito colloca il Tempio di Apollo; diventò presto l’emblema della irrequietezza dei partenopei, a metà tra storia e leggenda.
Dopo la tribolata conquista di Napoli, nel 1253, Re Corrado IV di Svevia volle collocare un “morso” in bocca al cavallo, per simboleggiare la sottomissione della città, e dispose un'incisione come monito per il popolo tutto. «Finora sbrigliato, ora obbedisce alle redini del padrone. Il Re partenopeo giusto doma questo cavallo».
Alla statua veniva attribuito il potere magico di «sanare il dolor del ventre à tutti quei cavalli, che d'intorno li fussero stati raggirati» e al suo cospetto si portavano gli animali malati, ornati di ghirlande, per farli girare tre volte intorno, nella convinzione di poterli guarire. La Chiesa mal sopportava la superstizione, e i maniscalchi ne erano così infastiditi da arrivare a sfondarne la pancia per far credere al popolo che il cavallo avesse perso il suo potere. Nel 1322 l’arcivescovo di Napoli dispose la fusione della statua, per ricavarne le campane per la cattedrale. La storia – sfumando in leggenda – s’intrecciò alle vicende della Protome Carafa, la testa di cavallo un tempo nell’atrio del palazzo di Diomede Carafa, Duca di Maddaloni, che nell’immaginario diventò la testa del Corsiero, risparmiata dalla fusione (sebbene sia solo folklore, ché quell’opera è una scultura di Donatello, realizzata a Firenze nella seconda metà del XV secolo).
I cavalli furono la grande passione di numerosi Sovrani di Napoli, dagli Angioini agli Aragonesi, sino ai Borbone.
Re Carlo rimase così affascinato del mito del Corsiero del Sole, da volerlo trasformare in realtà. Dispose l’incrocio tra le migliori razze equine, e ne uscì fuori – nel 1741 – il Cavallo Persano, dal nome del Sito Reale di Persano, residenza borbonica nel comune di Serra, in Salerno. I cavalli Persano erano trattati con ogni riguardo. Re Ferdinando IV predispose per loro il più grande galoppatoio tra tutti gli ippodromi, all’interno di una residenza reale. Nel 1874 i Savoia ordinarono la chiusura della scuderia e la dispersione della mandria, per cancellare un simbolo caratteristico della dinastia borbonica.
Oggi vediamo il cavallo nello stemma della provincia di Napoli, in posizione rampante, al centro di uno scudo dorato di forma sannitica, sormontato da una corona formata da un cerchio d’oro gemmato con le cordature lisce ai margini, che racchiude un ramo d’alloro e uno di quercia.
La Trinacria – in origine Triscele – è un simbolo religioso di derivazione orientale, composto da tre spirali unite in un punto centrale; nel tempo ha subito una serie di trasformazioni, sino a raffigurare una testa di donna circondata da tre gambe piegate; ha smarrito il suo significato religioso in epoca romana, per diventare il simbolo della Sicilia.
La testa rimanda alle Gorgoni, figure della mitologia greca, Euriale, Steno e poi Medusa, l’unica mortale delle tre sorelle e la Gorgone per antonomasia. Dall’epoca romana la testa venne privata dei serpenti e decorata con spighe di grano – simbolo di fertilità, prosperità e abbondanza – per tributare alla Sicilia lo status di “granaio dell’Impero”.
Le tre gambe piegate in simmetria rotazionale richiamavano originariamente le manifestazioni del Dio del Sole, nella forma di alba, mezzogiorno e tramonto – e per estensione di primavera, estate e inverno – ma evocavano anche l’eterno divenire, il ciclo infinito vita-morte-rinascita, il continuo avvicendarsi della luce e dell’oscurità.
“Trinacria” era anche il nome della Sicilia presso gli antichi Greci: treis (tre) e akros (promontori) con riferimento ai vertici dell’Isola – Capo Boeo o Lilibeo, a Marsala; Punta del Faro o Capo Peloro, a Messina; Capo Isola delle Correnti, a Siracusa – a cui è legata la leggenda di tre ninfe girovaghe per il mondo a raccogliere tesori, sin quando non giunsero in Sicilia, dove riversarono tutto ciò che avevano, nelle tre cuspidi dell’Isola.
Ritroviamo la Trinacria nel Libro XII della Odissea di Omero – «Poi arriverai all’isola di Trinachia, dove pascolano le molte vacche e le greggi ben nutrite del Sole» – e in Dante, nei versi 67-69 del Paradiso – «E la bella Trigacria, che caliga/ tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo/ che riceve da Euro maggior briga non per Tifeo ma per nascente solfo – dove “caliga” vuol dire “coperta di caligine”, con allusione alle frequenti eruzioni dell’Etna, che il mito attribuiva al gigante Tifeo sepolto sotto il vulcano.
La Trinacria si staglia sulla neonata bandiera siciliana durante i Vespri, nel 1282; darà poi il nome all’Isola – Regno di Trinacria – a seguito della Pace di Caltabellotta, nel 1302.
Dal 2000 la Regione Sicilia l’ha adottata nella bandiera ufficiale.
Il giglio è una figura araldica dal significato ambivalente: simbolo fallico, espressione della mascolinità del potere, ma anche indice di innocenza e verginità, e in ogni caso manifestazione di fierezza e orgoglio, come lo stelo dritto del fiore, che si spezza ma non si piega.
Diventa un emblema di regalità in Francia, intorno al XII secolo. La dinastia dei Capetingi ne fa un ornamento per il blasone e il sigillo, e i Borbone di Napoli lo riprendono nel proprio stemma – ponendone tre esemplari sul campo azzurro dello scudo centrale – per rievocare la discendenza dalla Casa francese.
I tre gigli sintetizzeranno l’intero stemma borbonico, abbelliranno gli esterni e gli interni dei palazzi del potere, e li si vedrà anche in vari luoghi pubblici e privati della città; ma esprimeranno pure il mutato stato d’animo dei regnicoli, in prossimità dell’arrivo di Garibaldi.
La mattina del 5 settembre 1860, il giorno prima della partenza per Gaeta – lo racconta Raffaele de Cesare – Re Francesco «uscì dalla reggia in un legnetto scoperto insieme con la Regina e due gentiluomini. […]. Alla strada di Chiaia, proprio sul principio, dovettero fermarsi, per un ingombro di vetture e carri. In una delle prime botteghe sotto la Foresteria […] stava allora la farmacia reale Ignone, la quale aveva sull’insegna i gigli borbonici, ed il cui esercente era stato un noto e furioso borbonico. Una scala, poggiata all’insegna, impediva il transito delle vetture. Il Re si fermò e vide che alcuni operai, saliti sulla scala, staccavano dalla tabella i gigli; additò con la mano a Maria Sofia la prudente operazione del farmacista, e nessuno dei due se ne mostrò commosso, anzi ne risero insieme. Molto più commosso di loro fu il duca di Sandonato, che in quel momento passava di là e vide tutto. Il duca racconta la dolorosa impressione che egli provò, assistendo a quella scena».
La rimozione dei gigli diventerà un atto politico, all’arrivo dei Savoia: furono tolti da Palazzo San Giacomo, l’edificio che ospitava i Ministeri del Regno delle Due Sicilie, e dalle ringhiere intorno alle statue equestri nel largo poi ribattezzato Piazza del Plebiscito.
Li recupereranno i briganti tra i loro simboli, per dichiararsi fedeli ai Borbone e sentirsi dentro un potere legittimo.
Questa simbologia, con tutte le sue suggestioni, arriva oggi a noi attraverso i francobolli per i dominî al di qua del Faro, i francobolli del Regno di Napoli, i francobolli del Cavalier Giuseppe Masini.
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