Re Vittorio è alla stazione!
Vittorio Emanuele II di Savoia è il primo Re d’Italia.
È una figura di caratura modesta, se paragonata a Cavour e Garibaldi, per la quale è più vistoso lo scarto tra la narrazione propagandistica e l’uomo rivelato dalle sue carte private e dalle testimonianze di chi lo ha conosciuto.
Vittorio è per tutti “il Re galantuomo”, un appellativo forgiato già quand’era vita, anche se chi gli stava accanto ne aveva ben altra opinione.
Nel 1867 il Ministro degli Esteri inglese è a Firenze – capitale del Regno d’Italia – e registra i pareri dei Ministri italiani sul loro Re, per riportane poi una sintesi spietata. «Mi dissero che era ipocrita e ignorante, un intrigante che nessun onest’uomo poteva servire senza danno per la sua reputazione. Tutti sono d’accordo nel giudicare il Re un imbecille. È un disonesto che mente con tutti».
Che fosse ignorante e svogliato nello studio lo confermano i suoi insegnanti. «È sempre addormentato, lavora poco o nulla, con somma noia e indolenza». Vittorio seguiva un severo programma scolastico, con una scaletta militaresca, sosteneva pure gli esami e ovviamente veniva promosso, ma poi i maestri apponevano delle note impietose a margine dei verbali. «Può dirsi che il Principe, agli esami, non ha risposto nulla di nulla».
Anche l’aspetto fisico e gli atteggiamenti in società erano motivi d’imbarazzo.
«Ha in sé qualcosa di selvaggio, di pittoresco, che non manca di grandezza, e fa pensare a un Re unno, a un capo barbarico», è l’annotazione a luci e ombre dello scultore Carlo Marocchetti.
«Sembra un capo di eruli o di longobardi, il tipo più depravato e dissoluto del mondo», è il giudizio più diretto del diarista inglese Charles Greville, che non è esattamente il miglior biglietto da visita per il più alto esponente di una Casa reale.
Opinioni sferzanti si registrano pure durante una sua visita a Londra: «il Re è di modi molto bruschi, e dice qualsiasi cosa gli passi per la testa; la sua conversazione è certo molto originale e spesso buffa per quanto rozza e militaresca al massimo grado».
I commenti sono dello stesso tenore in Francia, alla Corte di Napoleone III. «Il suo comportamento è molto rozzo e si racconta che dica cose irripetibili». Re Vittorio – per dire – confida all’Imperatrice Eugenia di adorare Parigi perché… le parigine non portano le mutande: «è un cielo azzurro che si è aperto ai miei occhi».
Vittorio è senz’altro un uomo di appetiti robusti, con innumerevoli relazioni sentimentali e figli illegittimi sparsi ovunque. Già nei primi anni del suo regno girava la voce che aveva davvero saputo essere “il padre del suo popolo”, una battuta così attagliata al personaggio, che potrebbe averla diffusa lui stesso.
Sicuramente parla senza pensare, perché tanto lui è il Re e può dire quel che vuole. «Chi è in fondo questo Napoleone III?» esterna davanti all’ambasciatore francese. «È l’ultimo dei Sovrani d’Europa, un intruso fra noi. Farebbe bene a ricordarsi chi è lui e chi sono io, che rappresento la più antica dinastia regnante». E quando realizza di aver esagerato, e tenta di rettificare, incontra tutta la flemma del diplomatico transalpino. «Vostra Maestà voglia scusarmi di non aver potuto sentire una sola delle parole che ha pronunciato».
Un altro diplomatico francese ne stigmatizza l’ego. «Sua Maestà Sarda ama vantarsi. È poco amica della verità, e per di più assai indiscreta. In ogni occasione parla delle sue venti ferite [in guerra] e fa volentieri il racconto favoloso dei pericoli che ha corso, sia in guerra che a caccia. Ognuno sa tuttavia, che pur essendo coraggioso e persino temerario, il Re di Sardegna è stato raramente ferito. Quanto alle fortune amorose, ne parla con una franchezza e una disinvoltura che non sono degne del suo soprannome di galantuomo. Il fatto più singolare è sì che spesso confonde i successi avuti con quelli che avrebbe voluti avere».
Persino il contegno a tavola è tutt’altro che regale. «Mangia una sola volta al giorno, ma abbondantemente, e preferisce i cibi grossolani e popolari. Quando è costretto ad assistere a un banchetto ufficiale, a un pranzo di corte, non svolge nemmeno il tovagliolo, non tocca cibo, con le mani appoggiate sull’elsa della sciabola, esamina i convitati senza cercare di nascondere l’impazienza e la noia».
Questo era Vittorio Emanuele, la figura chiamata a negoziare con Massimo d’Azeglio e Cavour, a decidere sull’atteggiamento da tenere verso Garibaldi, e che nel suo ruolo pubblico di Re non sapeva comportarsi diversamente dall’uomo che era nella vita privata.
C’è almeno un caso in cui si arriva a un urto frontale tra i due profili. Re Vittorio è rimasto vedovo e se ne auspica un nuovo matrimonio con una principessa inglese, nella logica dell’antico regime, di unioni parentali pilotate da opportunità politiche. Cavour gli tiene una lunga lezione sul modo di comportarsi in quell’ambiente puritano e formalista, e il Re si adegua come può: si accorcia i baffi di dieci centimetri, indossa abiti meno trasandati e mangia senza storie quel che viene servito nei pranzi ufficiali. Ma i modi bruschi non riesce a celarli: finisce con l’offendere il Principe consorte Alberto, e quando gli chiedono cosa lo abbia più colpito di di Londra, fa il nome di una damigella della Regina Vittoria. Ogni prospettiva matrimoniale tramonta quando interpellano l’ipotetica futura consorte, la principessa Mary. «Sono convinta che è una brava persona, ma questo non basta a compensare la sua mancanza di principi e di buone maniere. E come potrei mai rispettare e stimare un uomo così totalmente grossolano, uno che non ha neppure la cortesia e la raffinatezza di un gentiluomo per compensare le sue debolezze?».
Di là della dimensione personale – che pure non è semplice folklore, ché la buona educazione di un Re ha comunque una rilevanza politica – rimane un fatto della massima importanza: Vittorio si ritrovò in una posizione di potere nel momento più delicato, e riuscì a non perdere la testa, a non cedere alle tentazioni, a prendere le decisioni giuste.
Vittorio Emanuele diventa Re di Sardegna nel 1849, a 29 anni, dopo il disastro della guerra del 1848, che obbliga il padre Carlo Alberto ad abdicare e poi all’esilio.
Eredita un esercito umiliato dalle catastrofi di Custoza e Novara, e un Regno sotto schiaffo di un Impero austriaco trionfante. E tuttavia mostra una fermezza che diventerà un punto fisso della propaganda risorgimentale. Si crea l’immagine di un giovane Re capace di tenere in piedi quel poco di rappresentanza parlamentare che esiste nel suo Regno, respingendo le pressioni del Maresciallo Radetzky per abolire lo Statuto e ripristinare una monarchia assoluta.
E sì che a Vittorio sarebbe convenuto assecondare i reazionari, dare un colpo di spugna alle novità e tornare all’antico. Confessa all’ambasciatore francese che suo padre Carlo Alberto «ingannava tutti col suo regime deplorevole», che «il fantasma dell’indipendenza italiana è stato fatale al nostro sventurato Paese». All’ambasciatore austriaco dice cose ancora più terribili. «I democratici? Canaglie! Schiacciarli come mosche, impiccarli tutti quanti». Perché Vittorio Emanuele ha questa singolare capacità, che lo rende ipocrita nella percezione dei suoi Ministri, ma lo trae in salvo in numerose circostanze: dire a ognuno quel che vuole sentirsi dire, per fare poi quel che vuole lui.
Vittorio ha però anche tanto buon senso, non è un fanatico. Gli piace regnare, ma si rende conto che tiranneggiare gli provocherebbe più fastidi del governare come un Re liberale. È ostile alla democrazia, ferocemente antisocialista, ma è pure contrario alla sciabola dei governi reazionari. Non può che mandare l’esercito a Genova con tanto di cannoni, quando scoppia la rivoluzione repubblicana – «se riesco ad acciuffarlo, lo impaglio» dirà di Mazzini – ma le scelte di fondo del regime parlamentare saranno invariabilmente rispettate.
Rimane un regime parlamentare in “stile 1848”, con un suffragio proporzionato alla ricchezza e alle tasse pagate, e un livello di reddito fissato così in alto che solo il 3% della popolazione ha diritto al voto. Ma proprio per ciò la legge elettorale dà spazio all’opinione pubblica più illuminata, cosicché la Camera è popolata da personaggi d’inclinazione liberale (provenienti dal Piemonte) se non addirittura di sinistra (dalla Liguria) appena controbilanciati dalle rappresentanze di destra (dalla Savoia). E Vittorio, in fondo, avrebbe tutto da guadagnare da una eventuale estensione del bacino elettorale. «Darò il suffragio universale e andrò io stesso a parlare agli elettori», perché sa che gran parte del popolo è con lui, e un suffragio universale gli garantirebbe una Camera più conservatrice, quindi più malleabile.
I rapporti con i suoi Primi Ministri – Massimo d’Azeglio prima, Cavour poi – sono tanto confidenziali quanto travagliati. Siamo pur sempre nella piccola capitale di un piccolo Regno, dove c’è grande familiarità e tutti parlano in dialetto. «Mi voglia sempre tanto bene quanto io ce ne voglio a lei» scrive Vittorio a Massimo d’Azeglio. Il Primo Ministro ogni tanto gli dà dei consigli, per subire delle repliche piccate. «So cosa mi fo, e a dirle il vero non sono molto amante di consigli, quando ne avrò bisogno glielo chiederò. Con tutto ciò non mi voglia male. Ciau Massimo» (scritto proprio così: ciau).
Il rapporto con Cavour è sulla stessa lunghezza d’onda. Nel 1852 il Conte di Cavour è Primo Ministro e può vantare una discreta maggioranza di liberali conservatori, ma alla Camera è presente anche un consistente nucleo di sinistra – di “liberali democratici” come si diceva allora – guidati da Urbano Rattazzi. All’ordine del giorno c’è la nomina del Presidente dalla Camera, e Cavour sceglie la via di minor resistenza, passata alla storia come “il connubio”: si allea con Rattazzi e lo sostiene come Presidente, senza dir nulla al Re. Tutto in regola, anche se poco rispettoso del galateo istituzionale.
Re Vittorio s’infuria, quando viene a sapere che un democratico, già Ministro, è diventato pure Presidente della Camera. E però manda giù il rospo. «Sono poco divertito di vedere delle divergenze di opinione nel Ministero e che un Ministro abbia cercato questa nomina che non sarà da tutti ben capita né all'interno né all’estero» – scrive a Cavour – «Se lei me ne avesse parlato prima e che il fatto che pareva lontano non fosse stato invece così repentito» – scrive proprio così: repentito, invece di repentino – «gli avrei dato le mie ragioni e Ratazzi stesso» – scrive proprio Ratazzi con una sola “t” – «di cui conosco la prudenza le avrebbe capite per primo. Però ora ciò è fatto ed egli deve stare. Ciau Cavour, abbia più confidenza in me un’altra volta».
Durante la guerra del 1859 contro l’Austria, Cavour è angosciato dai pasticci che il Re potrebbe combinare, e lo invita di continuo a sentire i propri consiglieri, prima di prendere qualsiasi decisione. Vittorio reagisce male. «Lei mi dice che devo essere circondato da tanti geni che mi impediscano di fare delle bestialità. Pare che lei mi considera un grande asino nel mio mestiere Se lei mi parla ancora così, vedrà cosa farò. Manderò via dintorno a me tutti quelli ci sono e mi circonderò di meno capaci ancora e farò vedere io se non so fare il mio mestiere senza tanti consiglieri».
Quando Cavour si dimette, dopo l’Armistizio di Villafranca, Vittorio sembra essersi liberato di un peso. «Ho visto il Re» – dirà Minghetti – «da quando Cavour si è dimesso, sembra uno scolaretto in vacanza».
Ma Vittorio non può fare a meno di Cavour, senza Cavour non si governa, e poi c’è un immenso lavoro amministrativo da portare a termine, a seguito dell’annessione della Lombardia, dei Ducati e della Romagna pontificia.
Il Re è felice. «Io e il Maestro» – chiama così Cavour, nei momenti buoni – «siamo pronti a ogni cimento, anche a prendere il sole e la luna coi denti».
Cavour non ricambia. «Come rappresentante del principio monarchico, come simbolo dell'unità, sono pronto a sacrificare al Re la vita, le sostanze, ogni cosa infine» – scrive a un amico – «Come uomo desidero da lui un solo favore: il rimanermene il più lontano possibile».
Non è facile convivere con Re Vittorio. È un monarca che, volendo, avrebbe potuto abolire il Parlamento, e invece ha scelto di assoggettare il Governo al controllo della Camere. Ma è anche un uomo che ha imparato solo in parte il mestiere di Re costituzionale. Dovrebbe starsene in disparte, rimanere nell’ombra, e invece è sempre sulla scena, invariabilmente desideroso di condurre una politica personale.
E così c’è un Governo che negozia su più fronti, che imposta progetti di legge, magari controversi, e poi c’è un Re spregiudicato che contratta in segreto, convinto di poter spuntare qualcosa in più, e che si avvale di una diplomazia-ombra e persino di una polizia segreta. E questo è un dramma, perché continuamente può venir fuori uno scandalo, continuamente si può scoprire che il Governo sta conducendo una politica che il Re non sostiene, come per la proposta sul matrimonio civile, sponsorizzata ufficialmente e contrastata sotto banco dal Sovrano, dopo l’accusa del Papa di essere un «fautore di comunismo e di sovversione sociale».
D’altra parte Vittorio ha i suoi dossier, conosce a fondo ciascuno dei suoi Ministri e sente di poterli ricattare a ogni momento. «Li tengo tutti in pugno: avendo conservato un intero archivio di lettere che essi mi hanno scritto in epoche diverse, li faccio star zitti e rigare diritto».
Anche il mondo degli affetti risente della sua dualità. Re Vittorio ha due famiglie: da un lato è sposato con Maria Adelaide, che gli dà parecchi figli, e dall’altro ha una relazione fissa con Rosa Vercellana – la Bela Rosin – sin dai tempi in cui era Principe ereditario. L’ha conosciuta quando lei aveva 14 anni e l’ha portata subito a Corte. Dalla loro relazione nascerà una figlia e poi un figlio, e Vittorio avrà sempre questa seconda famiglia accanto alla famiglia ufficiale. Nella residenza privata al Castello della Mandria ci sarà una stanza per la moglie a un estremo, una stanza per la Rosina all’opposto, e in mezzo la stanza di Vittorio.
La Rosina diventerà il legame stabile del Re, alla morte della Regina. Vittorio vorrebbe sposarla, ma Cavour si oppone, per ragioni di etichetta e d’opportunità politica; e quando Cavour muore, nel 1861, il Re non si fa scrupoli nell’indicare chi ha osteggiato il suo desiderio – «me l’ha impedito un birbante che si diceva mio amico, e se ne pentì poi bene» – per poi passare ai fatti, a sposare la Bela Rosin.
È un matrimonio che lo obbliga comunque a giustificarsi. «Non ho mai amato al mondo che la tua santissima madre, e poi questa» scrive Vittorio alla figlia, in Francia; parla di «un terribile destino, un grande amore» e si dice pronto a sposare la Rosina, anche se lei non l’ha mai chiesto, ma lui glielo ha promesso, «quella promessa che come uomo onorato e soldato mi lega fino alla morte. Non volermi male e abbi un poco di carità per il tuo misero paparino. Ho bisogno, ho diritto, di avere un poco di pace».
Questo strano Re, che si vantava della sua discendenza ma detestava la vita di Corte, quest’uomo con un incontrollabile appetito carnale, sprezzante delle forme e pieno di sentimentalismo, questo politico dalla retorica ingenua, e però con un solido buon senso, rivela nel complesso una spontaneità che di sicuro lo allontana da Cavour ma al tempo stesso lo avvicina inaspettatamente a Garibaldi.
Re Vittorio e Garibaldi erano nati ai due estremi della scala sociale, stavano su posizioni politiche opposte, e tuttavia tra loro c’era più d’una affinità: ogni volta che entravano in contatto si creava una certa sintonia, per quanto grossolana.
Quando Garibaldi parte per la Sicilia, la conquista e risale verso Napoli, Re Vittorio è accusato di spalleggiarlo, di assecondare un’azione piratesca. Ma davanti al favore popolare di cui gode Garibaldi, di fronte a un Regno di Napoli che si squaglia sotto l’avanzata delle camicie rosse, Vittorio dà la più garibaldina delle repliche. «I popoli hanno il diritto di mandare i loro Re a farsi fottere».
L’affinità tra Vittorio e Garibaldi sconfinò in una curiosa leggenda, nella percezione del popolo siciliano. «Erano giovani villani quasi tutti, armati malamente di pali, di forche, di falci e di coltelli e pochi con vecchi fucili» – scrive Raffaele de Cesare – «erano caprari e bovari, giovanetti di campagna, picciuotti, quasi tutti scalzi, e pochi gli elementi civili. Questi villani non chiedevano per battersi che un trunco d’albero o nu petrone per difendersi la faccia e il petto, ed erano entusiasti di Garibaldi, di quel Garibaldi, marito, secondo essi, di una bella signora che si chiamava Talia, la quale era figlia di un Re valoroso e potente, che si chiamava Vittorio Emanuele, amico della Sicilia e nemico dei napoletani».
Non sappiamo se Re Vittorio fosse nemico dei napoletani, ma di sicuro nella sua vita non era mai sceso sotto Firenze.
Il 7 novembre 1860, al suo primo ingresso a Napoli, trovò una città trionfante. Lui era invece di umore cupo, come il temporale che rovinò le cento statue in gesso di donne mitologiche seminude – a simboleggiare altrettante città italiane – e gli sciolse la tinta dei capelli, che gli colò lungo il colletto della camicia.
«Lei resta a Napoli» – dirà Re Vittorio al Colonnello Thaon di Revel, direttore del Ministero della Guerra della Luogotenenza di Farini – «ma io per fortuna me ne vado».
Lo si rivedrà idealmente il 14 febbraio 1861, su quegli ibridi che sono i francobolli delle Province Napoletane, con la faccia di Vittorio e il facciale dei Borbone.
E poi nell’ottobre del 1862, quando anche a Napoli sarà introdotta la quarta emissione di Sardegna, già da tempo in uso in tutti gli altri territori del Regno d’Italia.
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