Una preghiera al Dittatore Garibaldi
«La libera comunicazione del pensiero e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo: ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge».
L’articolo XI della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino – anno 1789 – segna il culmine del processo rivoluzionario e l’inizio di una nuova fase.
In Francia circolano le notizie della Rivoluzione, nei “Caffè” e nei “Gabinetti di lettura” se ne enfatizzano le idee ispiratrici. Soffia un vento di emancipazione, che permette di distinguere, di scegliere, di orientarsi politicamente, persino di dileggiare l’autorità. Il diritto d’espressione è un caposaldo del nuovo ordine sociale, che istituisce un nuovo potere – il giornale, la stampa – e dà corpo a un soggetto sin allora sconosciuto – l’opinione pubblica – interpretata e al tempo stesso manipolata dai giornalisti.
Le novità d’oltralpe suscitano curiosità ed eccitazione nei ceti colti della penisola italiana. Con l’entrata di Napoleone a Milano, il 15 maggio 1796, sorgono le prime forme di giornalismo politico. «Di qui partiranno i giornali e gli scritti di ogni genere che infiammeranno l’Italia» strombazza il Generale.
I giornalisti si affrancano dalla sudditanza psicologica verso la nobiltà, conquistano la consapevolezza di un ruolo esclusivo nel direzionare le masse. Si sentono – e sono percepiti – come un tribunale: indagano, denunciano, decretano, assolvono, condannano. Quale distanza dallo stigma di un bando del 1691, che li accomunava a «giocatori, biscazzieri, meretrici e donne disoneste che vanno in carrozza».
Pure Napoli conosce un intenso sviluppo delle pubblicazioni, a seguito dell’avvento repubblicano del 1799.
Prima d’allora i giornali napoletani riportavano per lo più le cronache di feste e cerimonie di Corte, parlavano di manifestazioni teatrali e vestizioni monacali, di rado documentavano fatti accaduti lontano dalla capitale del Regno.
Ora prende vita un giornalismo politico, sul modello francese. Nascono varie testate, diverse per stile e impostazione, ma tutte con l’obiettivo di chiarire al popolo il senso di ciò che sta accadendo, di far riflettere sul recupero della dignità di ogni persona, libera di vivere in una società di individui uguali. Si organizzano letture pubbliche e ci si sforza di far passare i propri messaggi, anche attraverso la traduzione in dialetto.
Il Monitore Napoletano è un pungolo continuo.
La direttrice Eleonora Pimentel Fonseca lancia un appello dissuasivo a chi si unisce all’Esercito della Santa Fede del Cardinale Ruffo, o ne facilita il cammino verso Napoli, quando l’avanzata legittimista lascia presagire la fine dell’esperienza repubblicana. «Cittadini, che in tante comuni battaglie, bagnate le mani del sangue degli uni, e degli altri, e non arrossendo ad associarvi ad avanzi di carcere, e di pubblici infestatori di strada, partecipate con essi il brutto titolo di insurgenti contro la patria, per chi pugnate, e perché?».
Parole meravigliose, lasciate cadere nel vuoto.
Nell’agosto del 1799 le truppe francesi abbandonano la penisola italiana, sotto la pressione delle forze austro-russe. Crollano le Repubbliche, chiudono i giornali democratici e progressisti, sopravvivono solo le gazzette che non si erano compromesse con i rivoluzionari.
Ma già l’anno dopo Napoleone trionfa a Marengo e tutto cambia di nuovo. «Così una sola battaglia vinta dopo dodici ore d’una ritirata offensiva, ma perigliosa, ha nuovamente posto sotto l’influenza della Francia, la Lombardia, il Piemonte, la Liguria e le dodici piazze fortificate che difendono tali Stati» annoterà lo storico Jacques de Norvins.
Nel 1805 i francesi tornarono a occupare anche la parte meridionale della penisola, a eccezione della Sicilia, e instaurano un Regno di Napoli napoleonico, retto dapprima da Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore di Napoleone, e poi da Gioacchino Murat.
(Denis Mack Smith, storico britannico specializzato nel Risorgimento italiano)
Il Napoleone Imperatore di Francia e Re d’Italia – il Napoleone politico – non è il Napoleone soldato: si è trasformato in un despota, abile nel manipolare l’informazione, giocando sull’ambiguità dell’articolo XI, per cui si può sì «stampare liberamente», ma si deve anche «rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla legge», una riserva mentale che lascia spazio alla censura e permette di chiudere, a piacimento, i giornali ostili al Governo.
Napoleone conosce bene la forza dei giornali, nel regolare i processi culturali e politici; sa di dover mettere la stampa sotto controllo, di strumentalizzarla, per rafforzare un’autorità ancora fragile nei turbolenti anni di ascesa al potere; e più il suo potere cresce, più stringe le maglie della libertà d’espressione.
I numeri sono eloquenti: dopo il 1789, a Parigi, si contano oltre 70 giornali d’ogni tendenza; all’instaurazione dell’Impero, dopo il colpo di Stato del 9 novembre 1799, ne rimangono appena 14, infine ridotti a 4.
Emblematicamente l’Imperatore diceva di temere «tre giornali più di centomila baionette», e il Cancelliere austriaco von Metternich – il nemico per eccellenza – lamentava di rimando che «le gazzette valgono a Napoleone un’armata di trecentomila uomini».
Il Moniteur diventa la Gazzetta Ufficiale del Governo, megafono propagandista della sua politica, punto di riferimento obbligato per tutti i direttori dei giornali. «Le informazioni devono essere prese esclusivamente dal Moniteur. Ogni notizia spiacevole o sfavorevole per la Francia, i giornali la devono mettere in quarantena perché devono sospettare che sia stata dettata dagli inglesi. In generale i giornali devono parlare solo di eventi lieti per il governo».
Il Congresso di Vienna – nel 1815 – restaura i regimi pre-napoleonici, e insieme all’ancien régime ritorna tutto l’apparato di controlli preventivi sulla stampa: nelle capitali dei vari Stati, e nei centri urbani di maggiore importanza, c’è solo il Giornale Ufficiale della monarchia; i giornali liberali sono per lo più stampati in paesi stranieri, da esuli e patrioti, in clandestinità.
Re Ferdinando I – a Napoli – ripristina i provvedimenti di controllo sulle pubblicazioni, stabiliti nel Regno sin dal 1805-1806, prima della parentesi francese. Le domande per il permesso di stampa vanno inviate al Presidente della Prima Sezione della Gran Corte di Cassazione, per essere rimesse alla valutazione di un revisore. Un’apposita commissione alla dogana controlla i libri in arrivo dall’estero e invia le opere sospette al Ministero dell’Interno.
Durante il Governo costituzionale del 1820-1821 si assiste però a un risveglio della produzione libraria e al conseguente incremento delle pubblicazioni. Col decreto del 26 luglio 1820 («abolizione dell'ufficio de’ regi revisori») la materia è disciplinata in accordo con i principî liberali. La regolamentazione apre nuovi spazi – «ogni individuo è libero di scrivere, stampare e pubblicare le sue idee» – e a Napoli fioriscono quotidiani e fogli periodici, anche se fino agli eventi del 1848 non esisterà alcun giornalismo politico nel senso proprio del termine.
«Dopo il 1830 nacque una nidiata di giornali, che sebbene parlassero di sole cose letterarie, e dicessero quello che potevan dire, pure ei si facevano intendere, erano pieni di vita e di brio, e toccavano quella corda che in tutti rispondeva» – scrive il Settembrini nelle sue Ricordanze – «Era moda parlare d’Italia in ogni scritturella, si intende già l’Italia dei letterati: e sebbene molti avessero la sacra parola pure al sommo della bocca, nondimeno molti altri l’avevano in cuore».
I giornali – a Napoli – avevano diffusione solo nei caffè, dove si leggevano gratuitamente, e presso gli abbonati, a cui venivano recapitati per posta.
Il costo di spedizione – la «tariffa postale uniforme pe’ giornali e le stampe di ogni maniera» – era di ½ grano per foglio, e l’uso del francobollo era vincolante, come chiariva già il primo articolo del Real Decreto N. 4210 del 9 luglio 1857: «la francatura col mezzo de’ bolli di posta sarà obbligatoria per la spedizione e l'invio de’ giornali e delle stampe di ogni maniera per l'interno del Regno e per l’estero».
A differenza del resto della
corrispondenza – consegnata anche se non affrancata o sotto-affrancata,
con una soprattassa a carico del destinatario – le
stampe e i giornali non correttamente affrancati sarebbero rimasti
«giacenti nelle officine della posta» senza essere «mai dovuta la
restituzione del prezzo dei bolli apposti», in forza dell’articolo 10
del Regolamento del 28 settembre.
Precisione e chiarezza delle norme non evitarono discussioni e polemiche.
Nell’agosto del 1860 gli editori sollecitarono il Ministero delle Finanze al rispetto della puntualità nella consegna dei giornali, ché tutta la loro attrattiva stava nell’attualità dei fatti narrati. L’Amministrazione richiamò l’obbligatorietà dell’affrancatura, laddove molti giornali venivano spediti privi di francobollo, e quindi trattenuti in giacenza. La querelle proseguì a lungo, senza costrutto, con l’Amministrazione a ribadire l’obbligo di affrancare i giornali e gli editori che si ostinavano a disattendere la regola.
Tutto, però, stava per essere stravolto.
Da Salerno – in una comoda carrozza di treno – stava per arrivare a Napoli un uomo dalla vita burrascosa, «composta di bene e di male», per sua stessa confessione: marinaio, capitano di bastimenti, precettore d’italiano, francese e matematica, commerciante all’ingrosso di pastasciutta e operaio di una fabbrica di candele; arrestato nove volte – in Russia, Francia, Argentina, Uruguay, Italia – e condannato in contumacia dai Savoia alla «pena di morte ignominiosa» come «bandito di primo catalogo»; ufficiale di sei eserciti diversi e parlamentare di cinque Stati; romanziere, massone e ferocemente anticlericale, emblema del sovversivismo patriottico e del radicalismo nazionale.
«Tollerante» e «repubblicano» – così si definiva nelle sue Memorie – ma anche convinto «della necessità d’una dittatura onesta e temporanea in quelle nazioni» – come l’Italia – «vittime del più pernicioso bizantismo».
Si proclamava amante della pace, del diritto e della giustizia, e sosteneva di aver creduto «per la maggior parte della vita ad un miglioramento umano»; ma davanti all’amarezza «nel veder tanti malanni e tanta corruzione in questo sedicente secolo civile» gli era gioco forza concludere – con l’assioma d’un generale americano – «la guerra es la verdadera vida del hombre!».
Il 6 settembre 1860 Re Francesco II ripiega a Gaeta. «Fra i doveri prescritti ai re, quelli dei giorni di sventura sono i più grandiosi e solenni, ed io intendo di compierli con rassegnazione scevra di debolezza, con animo sereno e fiducioso, quale si addice al discendente di tanti monarchi» – è l’esordio del “Proclama” del Re di Napoli, che si conclude con un pensiero al suo popolo, oltre i destini personali – «Sia che per le sorti della presente guerra io ritorni in fra voi, o in ogni altro tempo in cui piacerà alla giustizia di Dio restituirmi al trono dei miei maggiori, fatto più splendido dalle libere istituzioni di cui l’ho irrevocabilmente circondato, quello che imploro da ora è di rivedere i miei popoli concordi, forti e felici».
Il 7 settembre Garibaldi entra a Napoli. «Noi non sappiamo donde cominciare, e dove finire» – scrive L’Omnibus, il giorno dopo – «Sbalorditi dal sublime evento; oppressi da indivisibile gioia, non sappiamo far di meglio che conservare l’ordine cronologico delle cose».
Il 13 settembre, ancora su L’Omnibus, tra le “Preghiere al dittatore Garibaldi”, compare la richiesta di riduzione della tassa per la spedizione delle stampe. «I giornali che tutti unanimi spianavano la via e preparavano le menti alle sue gloriose geste meritano questa agevolazione».
La contingenza determina un allineamento di obiettivi: il nuovo Governo vuol fare informazione, creare opinione, ché il consenso conquistato sul sentimento popolare va consolidato con la narrazione dei fatti e delle cose, con la loro cronaca puntuale, da diffondere massimamente; gli editori vogliono alleggerirsi di un costo, sgravarsi di un onere, sfruttando la contrapposizione politica e culturale tra i Borbone e Casa Savoia.
E la contingenza non poteva incontrare miglior attrattore di Garibaldi, uomo vanesio, da tempo circondato da uno stuolo di giornalisti compiacenti che ne romanzavano la vita fino a sfumarla tra mito e realtà – uno su tutti Anton Giulio Barrili, direttore del giornale genovese Il Movimento – e a cui spesso dedicavano le pagine centrali dedicati agli eroi e agli eventi del momento.
Il gioco delle equivalenze tra monetazioni sarde e napoletane conduce a fissare il porto dei giornali in ½ tornese, corrispondente a ¼ di grano, la metà del costo in vigore in quel momento.
Ma dov’era l’oggetto necessario allo scopo, il francobollo da ½ tornese? Non esisteva, l’emissione del 1858 non lo contemplava. Serviva crearlo, e pure in fretta: con sollecitudine si doveva passare dall’intenzione all’azione.
La linea d’attacco più efficace fu individuata in una modifica mirata della tavola del ½ grano: raschiar via la “G” di grano, sostituirla con la “T” di tornese, e lasciare invariato il resto.
una parte continuava a riportare l’originaria “G” di grano,
Si scelse di stampare il nuovo francobollo in azzurro, anziché nel tradizionale rosa, forse per facilitarne la distinzione dal ½ grano, o forse per marcare l’avvento della nuova Casa Reale, o magari per entrambi i motivi, pratici e politici.
Dalla metà di destra della seconda tavola del ½ grano – a opera dell’incisore Pasquale Amendola e del tipografo Gennaro De Masa – nasceva così il francobollo napoletano da ½ tornese, ribattezzato dai collezionisti “Trinacria”, con lo stesso stereotipo del francobollo borbonico, ma tinto d’azzurro, il colore dei Savoia.
Ce la si cavò con una scarna “Notificazione delle Poste” – senza data – pubblicata sul Giornale Officiale di Napoli n. 50 del 5 novembre 1860, e poi su L’Omnibus dell’8 dello stesso mese.
«Volendo rigorosamente attuare il già fermato nell’ultima tariffa per la tassa delle lettere e stampe che si spediscono fra i diversi Uffici Postali Italiani, e rimuovere alcuni abusi di consuetudine che sono ragioni del più de’ richiami de’ giornalisti e del pubblico, questa Direzione Generale ricorda:
1° Che la francatura delle stampe è obbligatoria, a ragione di un centesimo di lira italiana, pari a mezzo tornese a foglio di 20 grammi.
2° Che i giornali o le stampe non francate come sopra rimarranno giacenti nell’ufficio di spedizione.
NB. – Sono stati già confezionati i francobolli del valore di mezzo tornese, da servire fino a che non verrà introdotta la moneta italiana. Essi si troveranno vendibili all’Ufficio Generale, alla Posta e nei principali spacci di eccezione».
Non vi è quindi una data di emissione, perché nessun documento formale la ufficializzò, e tutto ciò che si è potuto registrare è la prima data d’uso: il 6 novembre 1860.
“Premura”, “urgenza”, “rapidità” furono le parole del francobollo garibaldino, che ne caratterizzarono inevitabilmente le modalità di realizzazione.
L’incisore Pasquale Amendola
si avvalse dei suoi allievi per accelerare i tempi di esecuzione, e la differente abilità di ognuno finì col rispecchiarsi nel prodotto finito, vista la complessità tecnica dell’operazione.
La tavola di acciaio temprato non si poteva incidere direttamente col bulino o il punzone. Serviva riportarla allo stato precedente alla tempra, più tenero e flessibile. Col metodo della “ricottura” la si riscaldò sino a una temperatura inferiore al punto di fusione, per poi sfruttare il raffreddamento lento e un grado di durezza che ne consentiva la lavorabilità. Rimaneva comunque un’operazione di alta chirurgia: si doveva eliminare un’incisione larga e profonda sulla piccola area della “G” di grano, perciò la raschiatura non poteva andare in profondità, altrimenti si sarebbe provocata una macchia che avrebbe impedito di distinguere la “T” di tornese.
Un punzone minuscolo – di appena 2 millimetri – fu lo strumento per l’incisione della “T”, e presupponeva una cura estrema nell’esecuzione – era appoggiato sulla lastra e quindi battuto con una mazzuola in linea verticale – che al tempo stesso conferiva una dimensione artigianale all’intero processo, cosicché ogni esemplare porta addosso un “difetto di punzonatura” che ne caratterizza la posizione nel foglio e lo rende unico.
Il periodo di validità del ½ tornese garibaldino si estendeva sino al 30 novembre 1861, e la sua presenza sulla scena non andò troppo in là: affrancò spesso i giornali nel mese di novembre, già molto meno in dicembre, e solo sporadicamente in seguito.
Storia breve e intensa, quella del ½ tornese garibaldino, storia di un oggetto che nell’asciutta comunicazione
della sua nascita conteneva già – in quel Nota Bene – l’annuncio della
sua scomparsa.
«NB. – Sono stati già confezionati i francobolli del valore di mezzo tornese, da servire fino a che non verrà introdotta la moneta italiana e cambiato lo stemma su’ francobolli medesimi».
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