Tommaso Aloysio Juvara, l’incisore di Re Ferdinando

«Qui è la chiave di ogni cosa» 
(Johann Wolfgang von Goethe)

«La prima cosa a cui bisogna abituare la Sicilia è sì di obbedire».

Re Ferdinando II di Borbone ben conosceva l’irrequietezza dei siciliani, un popolo vulcanico di un’isola vulcanica, con un radicato sentimento d’estraneità verso il continente, e indocile verso chiunque ne volesse mortificasse l’identità, già dalla medievale rivolta del Vespro.

 
«Tutto ciò che la natura ha di grande,
tutto ciò che ha di piacevole, tutto ciò che ha di terribile»
scriveva Dominique Vivant, Barone Denon 
«si può paragonare all’Etna, e l’Etna non si può paragonare a nulla».
Esattamente come i siciliani.

Il rapporto tra la Sicilia e i Borbone nasce male, su un equivoco.

Il 3 luglio 1735 la cerimonia d’incoronazione di Don Carlo si svolge a Palermo, e illude i siciliani sulla preferenza del nuovo Re per l’Isola, anziché per Napoli. Ma la scelta risponde solo a ragioni d’opportunità politica, serve ad affrettare i tempi della presa di possesso del Regno, a legittimarsi verso lo Stato Pontificio (che considerava quei territori dei propri feudi). Il Re parte per Napoli una settimana dopo, fissa la capitale nella città partenopea e lascia a Palermo un Viceré.

La nobiltà siciliana lo vive come un affronto, s’inasprisce l’antico dualismo tra Napoli e Palermo, e i siciliani, più che odiare i Borbone, finiranno con l’odiare Napoli, chiunque vi regnerà: l’autentica guerra d’indipendenza sarà quella da Napoli, la più alta ambizione rimarrà l’autonomia dell’Isola.

Così, se Napoli sperimentò nel tempo un’alternanza di visioni ideologiche e programmi politici – repubblicano nel 1799, imperiale nel 1806, liberale nel 1820 – e altrettante restaurazioni assolutiste – 1799, 1815, 1821 – la Sicilia si trovò invariabilmente in contrasto col Governo continentale: borbonica e anti-francese nel 1799 e nel decennio dei napoleonidi, autonomista e in opposizione con i costituzionali napoletani nel 1820.

A Napoli, d’altra parte, nessuno aveva mai immaginato di lasciar spazio alla Sicilia: «regnino in Napoli i Borboni, o regni Murat, o ci sia anche la repubblica» – annotava il siciliano Giuseppe La Farina – «l’indipendenza siciliana sarà sempre combattuta da’ Napoletani».

L’unione formale dei Regni di Napoli e Sicilia – a seguito del Congresso di Vienna, nel 1815 – è il punto di non-ritorno, che segna l’avvio di una rivoluzione permanente: la Sicilia si trasforma in una fucina di cospirazioni, diventa la polveriera d’Italia,  il cuore di tenebra del Regno borbonico, il coltello pronto ad affondare nelle carni della dinastia.

E che la rovina sarebbe arrivata dalla Sicilia, in fondo, i Borbone se lo sentivano: nell’anticamera della Sala del Trono, sulle volute del tetto, erano rappresentate tutte le province del Regno, a eccezione di quell’appendice ribelle e altera che era la Sicilia, che non riconosceva Napoli e che la stessa Napoli spesso disconosceva.

Ma per altro verso è proprio dalla Sicilia che i Borbone speravano di risorgere: se in Sicilia il Regno era stato perduto, in Sicilia lo si poteva riconquistare, sfruttando la naturale insofferenza dei siciliani per trasformarli in nemici dello Stato italiano.

«Il malcontento è generale e si accresce ogni giorno» – si legge in una relazione sulle condizioni dell’Isola, recapitata da un anonimo mittente al residente del Consiglio Ricasoli – «perché le leggi di leva, d’imposte ecc. sono in ogni stato odiose, e devono maggiormente esserle in un paese che faceva la rivoluzione piuttosto per non pagare dazi, che per un sentito principio politico. Ond’è che il malcontento non è contro il Ministero B o C, ma contro l’Unità, lo Stato, il Governo in astratto».

Per un vero o per l’altro, la Sicilia è l’oggetto del contendere. Perché, da sempre, «l’Italia senza la Sicilia non lascia immagine alcuna nello spirito» – citando Goethe – «Qui è la chiave di ogni cosa».

 

I celebri moti del 1848 partono dalla Sicilia, il 12 gennaio, nel giorno del compleanno di Re Ferdinando.

Il Governo napoletano è sulle prime incapace di una risposta militare, e prova ad aggiustare i rapporti attraverso misure legislative, col riconoscimento di nuove e più ampie forme di autonomia per l’Isola. I siciliani restano sordi: le lusinghe di Re Ferdinando, lontane dal guadagnarsi la loro fiducia, valgono solo ad accrescerne ulteriormente le già smodate pretese. Arriveranno persino a offrire la corona al secondo genito del Re di Sardegna.

Ma lo stallo della guerra tra Austria e Piemonte, il disimpegno degli altri Sovrani italiani dal conflitto patriottico, e la definitiva sconfitta piemontese a Custoza, ribaltano i rapporti di forza. Per il Re delle Due Sicilie arriva il momento della riconquista dei  dominî al di là del Faro, anche se la controffensiva gli costa lo stigma di “Re Bomba”, per la decisione di cannoneggiare su Messina in modo prolungato e indiscriminato, sino alla capitolazione. 

Svanita l’euforia, i rivoltosi mostrano tutti i loro limiti nel definire una linea comune di pensiero e azione. Le incertezze dei siciliani favoriscono l’azione militare borbonica, culminata nel maggio del 1849 con la resa di Palermo, la città dove tutto era iniziato.

 
La cacciata delle truppe napoletane dalla Sicilia nel 1848.
 

 
La riconquista napoletana della Sicilia nel 1848.

Ferdinando II non possedeva la virtù di obliare o celare i propri rancori, e per la Sicilia provò sempre una diffidenza invincibile, che non riuscì mai né a comprimere né a nascondere.

Aveva toccato con mano l’ostilità dei siciliani già nel 1838, nel corso della visita all’Isola dopo l’epidemia di colera; pure, i ricordi del ’48 lo accompagneranno per tutta la vita, e con i ricordi si alimenteranno di continuo rancori e le paure.

Nell’ottobre del 1852 il Re è in Calabria, per assistere a delle esercitazioni militari. Carlo Filangieri – Luogotenente in Sicilia dal 1849 – lo persuade a tornare sull’Isola, con l’idea di farlo rimanere tra Palermo, Messina e Catania, per suggellare la pace tra i siciliani e la dinastia. Ferdinando visita fugacemente Messina e Catania – che lo accolgono con entusiasmo – ma non Palermo, a cui vuol dare una lezione, e sarà un grave errore, perché i palermitani – che pure gli avrebbero riservato tutti gli onori – si risentono ancor più per l’esclusione.

E alla fine la ferita mortale alle Due Sicilie non verrà né da Londra né da Parigi, ma – appunto – dalla vicina Palermo.

«Quando io abbandonai il 30 settembre 1854 la Sicilia» – dirà Filangieri – «portai meco la convinzione, che il sistema di governo, che si voleva imporre a quel paese, l’avrebbe fatto presto o tardi perdere alla Monarchia napoletana».

E i Borbone avrebbero sicuramente perso la Sicilia subito dopo la morte di Ferdinando II, se l’onda rivoluzionaria non si fosse infranta contro il baluardo isolano della monarchia: il direttore di polizia Salvatore Maniscalco.

 
«Mancava una mano intelligente e vigorosa
per ben comandare l’esercito e rilevare il prestigio del governo quasi del tutto spento»
(Lettera di Maniscalco a Re Francesco II, 15 maggio 1860)

Vestiva in borghese, con semplicità, ma nelle grandi occasioni indossava la divisa di capitano. Parlava poco, il minimo indispensabile, preferendo ascoltare. Padrone di sé, comprimeva le passioni e frenava gli scatti di un’indole vivace, nascondeva ogni sentimento d'ira o compiacenza sotto un fine sorriso di ben simulata incredulità. Esercitò per undici anni il suo ufficio, con un’abilità di prim’ordine. Cambiarono due Re, tre Luogotenenti, tre Ministri per gli Affari di Sicilia, e parecchi direttori, ma Salvatore Maniscalco rimase sempre al suo posto.

Aveva un rapporto speciale col Conte Angelo Panebianco di Terranova, Intendente della Provincia di Catania, a cui scriveva lettere autografe, intime – che si aprivano con un «pregevole amico»  e si chiudevano con «credetemi pieno di affetto» – nelle quali si abbandonava a sfoghi e confidenze che non avrebbe riservato a nessun altro.

Nella corrispondenza che va dal febbraio 1859 ai giorni successivi all’insurrezione della Gancia, si trovano passaggi di questo tenore: «Una mano di occulti demagoghi agitano a quando a quando il paese, ma non sono ignorati dal direttore di polizia. Io rifuggo dalle prigionie politiche, di un castigo, che nobilita per così dirò della canaglia, che nulla sente di generoso e peregrino; li seguo da lunga mano, aspettando l’occasione di dare un colpo ardito […] manomettono la giustizia e alimentano il malcontento».

In una lettera del 10 novembre denuncia l’infedeltà delle istituzioni: «La magistratura disserve e non serve il governo, ed una delle fatalità del paese sta nella mala amministrazione della giustizia civile e penale». E nelle conclusioni: «I tempi sono tristi, e non vedo ancora un raggio di speranza per uscire da tanti guai».

Scrive poi, il 21 dello stesso mese, delle tensioni personali con i siciliani: «La nobiltà palermitana mi onora del suo odio, per averla io calpestata, quando pensò di agitarsi: io mi rido di questa malvoglienza e di questi odii». 

Il 29 dicembre: «il paese è materialmente in calma; i tristi si preparano ad una lotta, se ad essi verrà un ausilio dallo straniero. Noi li aspettiamo a pie fermo».

In una lunga lettera dell’11 febbraio 1860, scritta di suo pugno, c’è il presagio di ciò che accadrà: «Le vostre apprensioni sulle condizioni perigliose, nelle quali si trova la Sicilia, sono divise da me e da quanti sono attaccati alla causa dell’ordine. Io non temo un’insurrezione, ma temo d’uno sbarco di emigrati. Gli agitatori sanno che non si possono misurare colle forze del governo, e contano sull'ausilio straniero. La mala contentezza si fa sempreppiù maggiore e tutti credono l’autorità perduta. Dio salvi il Re ed il Regno e dia forza a noi per scongiurare i pericoli, che minacciano la quiete del Reame». 

Sette giorni dopo: «Palermo è agitata, ed io temo che […] verremo alle mani con una gioventù dissennata. Il sangue ricada sul capo di coloro che provocheranno la lotta». 

E alla fine del febbraio 1860: «Lo spirito fazioso imperversa in Palermo, e si manifesteranno sintomi gravi. Io sono apparecchiato a tutto, e ricorrerò alle ultime estremità». 

Il 13 marzo, con spirito profetico: «Qui v’è una certa calma, ma calma aspettante. La febbre politica ferve, e gli animi sono disposti ad un movimento. Nessun effetto hanno prodotto le ultime sovrane largizioni in Palermo».

Dieci giorni prima della rivolta della Gancia: «Il paese sta sulle bragi e si fanno sforzi sovrumani per contenere i rivoluzionari. La rivoluzione di Sicilia è aspettata in Italia. Dio ci aiuterà ed il nostro buon Re, il cui senno è superiore alla età Sua, saprà scongiurare la procella». 

E quindici giorni dopo, il 20 aprile: «L’insurrezione è vinta dappertutto, ed ora non resta che consolidare l’ordine che fu, ove più ove meno scosso. La vostra provincia è stata ammirevole; siane lode alla vostra operosità». 

È rivelatore un rapporto inviato in quei giorni a Napoli, con cui delinea l’inedita convergenza tra il separatismo siciliano e il movimento nazionale unitario, la reinterpretazione dell’opzione unitaria come ultima occasione dei siciliani per affrancarsi dal dominio borbonico. «È notevole che il mutamento, che va accentuandosi nella propaganda; mentre pel passato si è parlato solamente di voler attentare all’attuale ordine di cose per cercar di conseguire la separazione dalle provincie napoletane, adesso si accenna a principii unitarii, a riunione con l’Italia superiore».

«Le provincie erano separate da distanze inverosimili.
Si viaggiava a dorso di bestie,
e quando i fiumi e i torrentacci erano in piena, non si viaggiava punto.
Da Catania a Palermo occorreva un cammino di quattro giorni,
con tappe ad Adernò, Castrogiovanni e Roccapalumba;
la polizia non garantiva la sicurezza del viaggio, se di notte.
Da Catania a Messina ci volevano non meno di due giorni,
e le tappe erano Giarre, Alì e l'osteria della zia Paola, che ancora esiste,
ed era allora esercitata da un vecchio bandito,
e perciò non vi si andava che in compagnia e bene armati.
Ed erano questi i viaggi più solleciti e più sicuri,
essendovi strade regolari, costruite non molti anni prima»
(Raffaele de Cesare, storico)

Il dominio borbonico si reggeva in Sicilia come il dominio austriaco nel Lombardo-Veneto – sulla forza delle armi – e il napoletano era avversato in Sicilia quanto il croato poteva esserlo a Milano.

Ma il dominio borbonico in Sicilia – dall’1 gennaio 1859 al 22 luglio 1860 – utilizzò anche un strumento più sottile e raffinato, apparentemente innocuo, ma pervasivo: il francobollo.

Il decreto di emissione dei francobolli napoletani lasciava in sospeso – all’articolo 15 – l’estensione della novità alla Sicilia. «Per la corrispondenza delle lettere e la spedizione delle stampe tra i reali dominii al di qua e al di là del Faro si continuerà a osservare provvisoriamente l'attuale sistema in vigore, fino a quando non si sarà adottato anche pei reali domini al di là del Faro l’uso de’ bolli di posta».

Era un modo di operare tipico dell’amministrazione borbonica: raramente una stessa disposizione veniva emanata e applicata in simultanea nelle due parti del Regno; il più delle volte si procedeva dapprima nei  dominî continentali, e la si estendeva ai  dominî insulari solo dopo averne visti gli effetti, spesso con opportune modifiche. Ma è pur vero che il 9 luglio 1857, non appena pubblicato il decreto per i francobolli napoletani, il Ministro per gli Affari di Sicilia Giovanni Cassisi ne spedì varie copie al Luogotenente in Sicilia, il Principe di Castelcicala, per avviare quanto prima la riforma postale anche sull’Isola.

Il francobollo era un oggetto di emanazione governativa, e nulla poteva perciò esser lasciato alla libera inventiva, nella sua realizzazione: «trattandosi di servizio postale è mestieri prevedere tutto» – scriveva il Ministro Cassisi al Principe di Castelcicala, il 23 novembre 1857 – «ed io ho quindi creduto nello interesse del R.le Servizio sottomettere alla E.V. tutte le mie idee per essere illuminato».

Il francobollo circolava tra la gente, passava di mano in mano, da un suddito all’altro, da uno sguardo all’altro, e col suo corredo di allusioni e simboli oltrepassava la funzione tecnica di affrancare una lettera, per diventare un mezzo subliminale di propaganda. Possedeva poi un potere sinestetico con cui sollecitava una pluralità di facoltà percettive – la vista, con la sua forma, i colori e le immagini; il tatto, con la percezione della carta sotto le dita; e persino il gusto, col sapore colloso della gomma al verso – e poteva sin anche esser percepito e giudicato per la sua estetica, alla stregua di un’incisione o una stampa d’arte, per quanto stringata.

Sui francobolli di Sicilia, i francobolli per i dominî al di là del Faro – i “Testoni”, come li avrebbero ribattezzati i collezionisti – sono presenti tutte le possibili sfaccettature: mezzo di comunicazione grafica, dichiarazione d’autorità, indicatore della situazione politica e – non ultimo – opera artistica in miniatura («il francobollo artisticamente più valido fra quanti siano stati mai emessi al mondo», con le parole di Nino Aquila).

Se Salvatore Maniscalco era il braccio armato del potere, il volto feroce della monarchia, Tommaso Aloisio Juvara ne rappresentò il tocco di eleganza, il legame esclusivo tra la burocrazia borbonica e la cultura artistica.   

«Siamo stati, tanto mia moglie che io lusingati, incantati e lieti
della ospitale accoglienza fattaci dai generosi palermitani di ogni classe,
e quello che più conta, da tutti i migliori artisti,
quali, in questi momenti hanno fatto tacere le gare e i risentimenti,
tanto nocivi all’incremento delle Arti belle in Sicilia
[…].
Cosa diremo però a voi cortese ed affettuoso amico?
Mia moglie racconta a tutti della deliziosa visita della Conca d’Oro
delle sue belle strade sparse di fiori nel bel mezzo di Gennaro
della celebre chiesa Madre di Monreale,
resa più interessante dalle vostre erudite spiegazioni sul merito
e sulle diverse epoche della sua costruzione e dei suoi mosaici.
Fu quello un bello e divertito giorno che passammo in vostra compagnia,
ed io debbo raddoppiare i miei ringraziamenti pel bello articolo che vi piacque pubblicare
che mi riguarda e in cui la cosa che più mi lusinga si è che ho adempito al sacro dovere
facendo molti abili incisori ed in ciò dovete sapere,
per apprezzare al giusto la mia spiegazione alla istruzione degli allievi,
che lo faccio malgrado che siamo stati, tanto io che mio fratello,
le vittime di taluni allievi […] non so se più ingrati o malvagi.
Ma non parliamo di loro, sono troppo vili…»
(Lettera di Tommaso Aloisio Juvara «all’antico amico» Agostino Gallo)

Lo Juvara era professore d’incisione al Reale Istituto di Belle Arti di Napoli, quando nel 1857 fu allertato per la realizzazione dei francobolli siciliani. L’investitura lo portò a declinare l’analogo invito per la produzione dei francobolli napoletani: «l’incisore Cav. Aloysio ha accettato, a mio solo riguardo, di incidere il conio dei francobolli di Sicilia […] essendosi affatto negato per le plance che qui si fecero pe’ bolli della Posta di Napoli» riporta una lettera del 16 marzo 1858, indirizzata dal Ministro Cassisi al Luogotenente Generale di Sicilia.

Proveniva da una famiglia ordinaria – il padre era parrucchiere – ma vantava un’ascendenza nobile per parte di madre – sorella di Filippo Juvara, l’architetto al servizio di Casa Savoia, che aveva ridisegnato lo stile di Torino nel ’700 – e volle mantenere il cognome materno per preservare il legame con l’illustre zio. 

Ambizioso e irrequieto, talentuoso e perfezionista, era stato educato dai più affermati maestri dell’epoca. Conseguì numerosi premi prestigiosi – il primo già all’età di 18 anni – e non smise mai di studiare, in Italia e in Europa – a Roma e a Parma, a Londra e Parigi – laddove si trovavano gli artisti più rinomati.

Esprimeva una sincera devozione per la dinastia borbonica, testimoniata dall’incisione Entrata di Ferdinando II a Messina, del 1838, che commemorava l’arrivo del Re dopo l’epidemia di colera, quando un diffuso sentimento anti-borbonico attribuiva proprio al Re la volontà di contagiare la Sicilia.

 
Entrata di Ferdinando II a Messina.

Possedeva una così spiccata pulsione per l’arte, che al principio faticava addirittura a governare. «Come andò in furia il mio maestro» – scrive il 25 aprile 1873 – «quando per la smania di voler cominciare a incidere, ancora digiuno del disegno, volli incidere sul margine una testa!». Il suo talento agiva a tutte le scale. «Nelle piccole come nelle grandi cose, è sempre quel fare che rivela il maestro» – scriveva di lui Virgilio Saccà – «anzi nelle piccole sue cose c’è tanto gusto e tanta ricercatezza che le farebbe preferire alle grandi se per questo non ci fosse la grande difficoltà di una vasta esecuzione».

Ma quando Dio concede un talento, poi obbliga pure a espiarlo, come fosse una colpa, e se per tutti l’opera dello Juvara fu un piacere puro, per lui si trasformò in una frusta per l’auto-flagellazione.

Le continue dispute, le invidie e le gelosie –  in special modo le critiche sfrenate dell’incisore romano Luigi Ceroni – ne aggravarono il già precario equilibrio mentale, sino a spingerlo al gesto estremo.

La mattina del 29 maggio 1875 si ritira nel suo studio, a Roma. Sistema un crocifisso e le sue incisioni più belle davanti a una poltrona. Vi si siede di fronte e si recide le arterie di mani e piedi. Raccoglie il sangue in una tazza, v’intinge un pennellino e scrive i suoi ultimi pensieri sulle pareti. «Chiedo perdono a Dio di essermi ucciso e gli raccomando la mia anima». Dipinge infine le piaghe al crocifisso e vi lascia sotto il suo messaggio di addio. «Io ho voluto tingere le tue piaghe, o Gesù, col mio sangue perché come te muoio innocente e calunniato, ma perdonando».

Dopo ore di agonia conclude la sua vita – a 66 anni – con un colpo di revolver in bocca.

Epitaffio sulla tomba di Tommaso Aloysio Juvara al cimitero romano del Verano.

Se il francobollo è un oggetto carico di significati politici e sociali, se possiede un potenziale simbolico strumentale alla costruzione dell’immaginario collettivo, se può evocare un altrove, una tradizione, un’autorità, allora la scelta del soggetto del francobollo siciliano non poteva cadere meglio che sull’effige di Re Ferdinando II, per riaffermare la sovranità dei Borbone sull’Isola, per rivendicare il potere monarchico.

«Da parte mia […] crederei molto più riverente di mettere la sacra effige di S.M. il Re (S.N.) nei bolli della posta siciliana». Con queste parole – in una lettera del 21 gennaio 1858 – il Ministro Cassisi avviava il confronto col Principe di Castelcicala, Luogotenente in Sicilia, sul soggetto da riprodurre sui francobolli per i dominî al di là del Faro.

E dopo oltre due mesi, il 4 marzo 1858, poteva ufficializzare la decisione. «È con la soddisfazione più profonda che ebbi l’onore di umiliare oggi stesso all’E.V. la Sovrana risoluzione di S.M. il Re (N.S.) pei francobolli della posta di Sicilia, i quali in vece degli emblemi delle due parti del Regno porteranno la Sacra effige della M.S.».

Il Castelcicala gli replicava con lo stesso entusiasmo. «Non meno piacevole che all’E.V. è a me riuscita la comunicazione del Sovrano rescritto, che approva i disegni dei bolli della posta di Sicilia, i quali, a differenza di quelli di Napoli porteranno la sacra effigie del nostro augusto signore».

Il timbro annullatore poneva però un primo problema istituzionale. Mutuare l’annullo napoletano rischiava di rivelarsi un affronto al Re, e favorire il gioco dei rivoluzionari: «cosa anche più grave, io debbo ricordare che a V.E. che su questi bolli debbono gli uffici postali sovrapporre il marchio che li annulla» – scriveva il Principe di Castelcicala al Ministro Cassisi, il 3 febbraio 1858 – «ma questo annullato [...] potrebbe essere collocato sulla sacra immagine del Re ed io non saprei potersi assolutamente evitare un caso di tanta irriverenza».

La soluzione fu ingegnosa e spettacolare: il magnifico timbro “a ferro di cavallo”, un colpo di arte e di genio, un annullo che non solo rispettava l’effige del Sovrano, ma addirittura la valorizzava.

 
«Affinché di un bollo di posta già usato non possa farsi uso fraudolento per la seconda volta, 
gl’impiegati a ciò addetti apporranno nell’atto della spedizione della lettera o piego
un marchio in nero sul bollo di posta secondo l’apposito disegno da Noi approvato»
(Decreto Reale del 29 Novembre 1858, articolo 7)
 
L’esperienza dei francobolli napoletani – monocolori – suggeriva poi di differenziare le tinte, per distinguere a colpo d’occhio i diversi valori: «io opinerei […] che vi siano tanti colori quanti sono i bolli» scriveva il Castelcicala al Cassisi, il 13 febbraio 1858.
 
Ma nella scelta – lo aveva avvertito il Ministro, il 23 novembre 1857 – bisognava evitare di «offrire combinazioni di colore non riconosciute dal nostro Real Governo», in due parole inibire il tricolore, italiano o francese che fosse.
 
«Fra’ diversi colori dei fregi di cotai bolli evvi il rosso, il bleu ed il verde» – scriveva il Principe di Castelcicala, il 3 febbraio 1858 – «Io pregherei V.E. a riflettere se siavi cosa da potersi osservare in contrario per la combinazione di questi colori fra loro col bianco del fondo della carta dove si debbono apporre». E poi, ancora, il 13 febbraio: «io anderei alla idea di sopprimere il verde o il rosso […] e sostituirei o un secondo verde o un secondo rosso con diversa gradazione».

Alla fine «il rosso, il bleu ed il verde» rientrarono tra i colori ammessi per i francobolli di Sicilia, e la loro «diversa gradazione» fu dovuta più all’artigianato di stampa, che non a una precisa volontà. C’è anzi «da rimpiangere che i valori emessi siano stati solamente sette» – osserva Nino Aquila, nel commentare le «deliziose tinte» dei francobolli siciliani – altrimenti si sarebbe avuta una tavolozza ancor più ricca e variopinta.

 

Se la Sicilia è «un’orgia inaudita di colori», nella metafora di Freud; se per Pascoli è una «nuvola di rosa sorta dal mare»; se «la cedevole scambievolezza delle tinte, l’unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra» ne riassumono il ricordo di Goethe, allora i “Testoni” siciliani si collocano a pieno titolo in una tradizione in cui i colori non si limitano a colpire negli occhi, ma circolano nelle vene e penetrano nelle ossa, incensano l’anima, sino a restituire l’immagine più autentica dell’Isola.


Il giallo della Sicilia


½ grano




                                                



 

Il bruno e il verde della Sicilia


1 grano




                                                






                                        



                        


50 grana


 
 

L'azzurro della Sicilia


grana

                                            











                                                                                






                                                                                







10 grana

                        


20 grana



 

Il rosso della Sicilia


5 grana




Commenti

Post popolari in questo blog

“Al di qua del Faro” - Napoli 1858-1863

Vi presento il Signor Fabiani

Intorno ai semiofori