L’alba di un nuovo Regno

 
«L’Italia da circa mezzo secolo s’agita, si travaglia per divenire un sol popolo e farsi nazione.
Ha riacquistato il suo territorio in gran parte.
La lotta collo straniero è portata a buon porto, ma non è questa la difficoltà maggiore.
La maggiore, la vera, quella che mantiene tutto incerto, tutto in forse, è la lotta interna.
I più pericolosi nemici d’Italia non sono i Tedeschi, sono gl’Italiani.
E perché?
Per la ragione che gl’Italiani hanno voluto far un’Italia nuova,
e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima,
colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina;
perché pensano a riformare l’Italia,
e nessuno s’accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro,
perché l’Italia, come tutt’i popoli, non potrà divenir nazione,
non potrà esser ordinata, ben amministrata,
forte così contro lo straniero come contro i settari dell’interno, libera e di propria ragione,
finché grandi e piccoli e mezzani, ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere,
e non lo faccia bene, od almeno il meglio che può.
Ma a fare il proprio dovere, il più delle volte fastidioso, volgare, ignorato,
ci vuol forza di volontà e persuasione che il dovere si deve adempiere non perché diverte o frutta,
ma perché è dovere; e questa forza di volontà, questa persuasione, è quella preziosa dote
che con un solo vocabolo si chiama carattere, onde, per dirla in una parola sola,
il primo bisogno d’Italia è che si formino Italiani che sappiano adempiere al loro dovere;
quindi che si formino alti e forti caratteri.
E pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto»
(Massimo d’Azeglio, Presidente del Consiglio del Regno di Sardegna dal 1849 al 1852) 

Don Liborio Romano conservò il ruolo di Ministro dell’Interno sino al 24 settembre 1860. Entrò quindi nel Consiglio di Luogotenenza, dove rimase fino al 12 marzo 1861. Fu poi eletto deputato nel primo Parlamento del Regno d’Italia, un’esperienza che andò avanti sino al 25 luglio 1865.

Il 15 maggio 1861 scrisse una lettera privata al Conte di Cavour, che rese nota nella seduta parlamentare del 12 luglio, e infine pubblicò apertamente per due ragioni: «perché sussistendo […] in gran parte i mali in essa indicati, possa il governo darvi pronto riparo» e «perché sia fatto palese che le provincie napoletane non sono ingovernabili, né meno unitarie, che ogni altra terra Italiana».

Don Liborio parla «nel solo scopo di giovare, come so e posso, la causa della patria, che è stata, è, e sarà sempre in cima de' miei pensieri». In questo spirito di franchezza – dopo una sviolinata a Re Vittorio e una stilettata ai Borbone – confessa che «serpeggia in quasi tutto l’ex regno, sotto diverse forme, un certo scontento del governo», e serve «ricercar di ciò le cagioni, e darvi pronto riparo» perché altrimenti «lo scontento dei popoli» agirà «come la goccia dì acqua che col cader frequente incava il marmo».

Lo «scontento nelle meridionali provincie d’Italia» è ricondotto alle «dieci piaghe delle Due Sicilie».


I - Don Liborio esordisce con un’annotazione antropologica sulla «diversità di caratteri» tra coloro che son nati là dove Italia boral diventa – citando Alfieri – e i figli dell’Etna e del Vesuvio, perché «[d]al diverso carattere dei popoli, che voglionsi unificare, e fondere in uno, sorgono spesso ragioni di repulsione, e di scontento» e se si vuole eliminarle – per convivere pacificamente, in armonia – «bisogna bene rendersi conto della peculiare indole di ciascuno».

II - Passa immediatamente a una critica politica, «l’istituzione delle Luogotenenze», giudicate «anomale e anticostituzionali, inutili e dispendiose ruote governative», che «risvegliano spiacevolissime ricordanze antiche, e novelle, come sono quelle dei tristi tempi viceregnali non che de’ recenti soprusi, ed arbitri nei domini insolari», e alimentano il sospetto che Napoli e Sicilia siano solo province del Piemonte, anziché parti costitutive di una nuova realtà nazionale.

III - Dalla visione generale scende a temi particolari, al «modo di governare», su cui afferma «due spiacevoli verità».

La prima: «una certa smania di subito impiantare nel Napoletano quante più si potevano delle istituzioni e dei modi di governare tolti al Piemonte, senza punto discutere se opportuni, od inopportuni al paese tornassero. La qual cosa fece da prima sorgere il concetto che non volevasi mica unificare le provincie meridionali col rimanente d’Italia, ma invece tutte annetterle al Piemonte».

La seconda: un «certo tal quale favore o predilezione nelle nomine agli uffici si concedeva agli emigrati, e sopra tutto a coloro che avevano dimorato in Torino» cosicché «ognuno vedesse non esservi nel governo unità di sistema, principio mezzi e fini determinati, non giustizia distributiva, ma invece espedienti governativi secondo le esigenze dei casi, personali favori, una consorteria, un partito».

IV - La prima spiacevole verità – «l’importazione delle leggi piemontesi nelle provincie meridionali» – viene ripresa e dettagliata. «Le leggi sono l’espressione dei bisogni dei popoli, e dai bisogni (di opinione o di fatto che siano) nascono dal clima, dall’indole degli abitanti, dal civile progresso, dalle condizioni religiose, politiche, economiche, dai pregiudizi, dagli errori stessi. Perlocchè se per la natura delle cose è egli impossibile che due popoli si trovino nelle identiche condizioni naturali, e civili, è parimenti opera vana l’importare all’uno le leggi dell’altro. Ché inefficaci e frustranee rimangono le leggi nella loro azione, ove siano dai costumi avversate. […]. Invece più utilmente avrebbesi dovuto disporre che ciascuna provincia Italiana si governasse con le proprie leggi sino a che il Parlamento Nazionale avesse formato un Codice a tutta Italia comune. Il qual Codice nascerà dal fondere insieme quanto avvi di meglio in quelli che ora reggono l’Italia, dal valutare le peculiari condizioni di ciascuna provincia […]. E tanto più spiacque […] in quanto rinfocolò l’idea che volevasi tutto piemontizzare».

V - Lo «scioglimento degli eserciti» – napoletano e meridionale – è giudicato un «grave errore» indotto da un «imprudente consiglio», perché «obliando ogni debito di gratitudine verso coloro che ci aveano redenti» gli negano «quella giustizia che avrebbero ottenuto dallo stesso abborrito Borbone».

VI - Parla poi delle «condizioni della finanza napoletana», che sono «ben infelici», passando in rassegna quelle scelte tecniche del Governo «che vivissimo scontento produssero, e producono nell’universale».

VII - Prospetta il tema delle «opere pubbliche» con tono impietoso. «Sin dal primo arrivare di Garibaldi in Napoli si è sempre parlato della necessità di fare quanto più si potessero opere pubbliche, per dar lavoro, e pane al popolo che ne abbisognava. Ma in verità, o non se n’è fatta alcuna, o languidamente sono state continuate quelle che erano in corso. […]. Per tanto il popolo ha tollerato pazientemente la fame dal novembre 1860 sino a questo giorno, e la tollererà ancora per altro tempo, chiedendo sempre lavoro e pane».

VIII - In fatto di pubblica sicurezza, stigmatizza lo smembramento della Guardia Nazionale, «il primo presidio della libertà»; solo «quando di già il sangue cittadino era corso per le strade della Capitale», solo «quando il sangue italiano aveva pur bagnate parecchie città delle province napoletane», solo allora, da Torino, si «spedirono in Napoli truppe, e 40 mila fucili per armar la Guardia Nazionale».

IX - Il giudizio politico si colora con valutazioni etiche sulla «moralizzazione delle Amministrazioni». Perché se una volta «scomposto tutto il personale, il disordine morale del paese era stato scoperto», se era ormai acclarato «che gli uffici si concedevano per deferenza o per intrighi», rimane pur vero che «cotesta condizione di cose […] è peggiorata, sotto la doppia Luogotenenza» e ancora vi sono «persone distinte per istruzione e patriottismo» convinte che «i loro figliuoli si avesse diritto a vivere a spese dello Stato!».

X - La conclusione è riservata al «personale governativo», e qui Don Liborio reclama il diritto di «usare maggiore libertà di parole di quello che ho fatto sin’ora».

Riconosce a Cavour un «eminentissimo merito diplomatico», grazie al quale «la patria comune è risorta a novella vita», ma gli ricorda che «nelle sfere inferiori dell’amministrazione dello Stato non ha mostrato pari valore. E qual meraviglia, se l’uomo che spazia come aquila nelle più alle regioni della politica, non sappia discendere alla minuziosa, ed ingrata opera amministrativa?». 

La critica si appunta sulla stazza politica, tecnica e umana degli uomini di Governo. «A taluni dei ministri l’opinione pubblica nega e l’ingegno, e la scienza e la idoneità uguali all’alto loro ufficio. Di talun altro rispetta ed onora l’ingegno, il molto sapere, la probità, ma il dice da lei collocato in una falsa posizione, inutile allo Stato, dispendiosa all’erario».

Ne segue uno scoramento diffuso. «Scontenta l’universale il veder conservali in ufficio molti individui su cui pesa una compiuta impopolarità».

Servirebbe rimuovere tutti coloro che «han perduto ogni pubblica stima, ogni morale prestigio» altrimenti «si avrà un governo di consorteria, di partito, un governo che farà rivivere in Italia quelle fazioni che si lungamente e tanto le nocquero».

Don Liborio chiosa con la preghiera – a «[l’]onorevolissimo signor Conte» – «a far sì che tutte le cagioni di dispiacenza […] cessino in ogni parte d’Italia, e tutti i suoi figli concordi cospirino a farla indivisibile ed una, indipendente e temuta».

 
«Quando i pretesti che si affacciano per la indipendenza di Sicilia e per la liberazione del Continente
saranno esauriti, vedrà l’Italia e vedrà il Governo Sardo quali difficili giorni potranno sopravvenire, 
e quali tremende esigenze potranno esser messe innanzi»
(Giovanni Manna – Ministro delle Finanze di Re Francesco II – al Conte di Cavour, 6 agosto 1860)

La questione del Mezzogiorno è un tema permanente dellagenda politica italiana e del dibattito pubblico, di cui si ha traccia già nei primi anni dell’unificazione nazionale.

È un argomento complesso sin dal principio – dalla relazione di Giuseppe Massari sul fenomeno del brigantaggio alle lettere di Pasquale Villari – a cui nel tempo si sono dedicate numerose figure, istituzionali e non solo, con idee, analisi e proposte d’ogni tipo.

Ma ogni volta resta la sgradevole sensazione di essere fermi al punto di partenza, di trovarsi nella stessa deprimente situazione rappresentata da Don Liborio, di vivere l’alba perenne di un Regno che non riesce a sorgere del tutto.

Il 50 grana dell’emissione delle Province Napoletane:
ufficialmente emesso il 17 marzo 1861,
con prima data nota di utilizzo 18 marzo 1861.

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