Finché Venezia salva non sia [*]

 

Il 7 settembre 1860 Don Liborio Romano è alla stazione di Napoli, ad attendere Garibaldi.

Gruppi di popolani si sono ammassati per le strade sin dalle dieci del mattino, con bandiere d’ogni grandezza, mazze e stendardi, grandi coccarde e picche. Il conte Giuseppe Ricciardi, in piedi, dentro una carrozza, sventola un tricolore. «A mezzogiorno arriva il dittatore, tutti alla stazione».

All’arrivo del treno c’è così tanta confusione che Enrico Cosenz, eroico difensore di Venezia, al quale Garibaldi ha ordinato di cavalcare accanto a lui, ne viene separato senza avere possibilità di rivederlo, se non a sera.

Il Generale attraversa Napoli in carrozza, a passo lento, per la difficoltà ad aprirsi una via tra la folla. Accanto a lui c’è Demetrio Salazaro, che sventola un bandierone col cavallo sfrenato di Napoli da una parte, e il leone di San Marco di Venezia dall’altra. Garibaldi la bacia. «Presto saranno liberati i nostri fratelli».


 

Il 17 marzo 1848, a Venezia, una manifestazione popolare d’ispirazione indipendentista costringe il governatore austriaco a liberare un gruppo di patrioti incarcerati nel gennaio precedente. Cinque giorni dopo, sulla scia di ciò che sta accadendo a Milano, l’intera città proclama la Repubblica, con un proprio ordinamento democratico.

È l’onda del Quarantotto, partita dalla Sicilia e arrivata sino in Veneto.

L’illusione di una Venezia indipendente durerà fino al 24 agosto 1849, quando gli austriaci se ne rimpossesseranno, a conclusione di un assedio di oltre tre mesi.

La libertà – dopo di allora – passerà per una sola via, la più dolorosa: l’emigrazione dal Regno del Lombardo Veneto.


Già dopo l’armistizio di Salasco, nell’agosto del 1848, si registra un primo flusso migratorio dal Lombardo Veneto al Piemonte, che s’intensifica nel 1849, a seguito della sconfitta di Novara, e soprattutto dopo la caduta della Repubblica Romana e la definitiva capitolazione di Venezia.

Il Governo piemontese accoglie gli emigrati tra timori e diffidenze.

Dispacci di vario tipo mirano a controllare il fenomeno, a scoraggiare la permanenza dei sudditi di altri Stati, o impedire del tutto nuove ondate di arrivi dalle parti centrale e meridionale della penisola. In una circolare del 18 giugno 1849 si distingue tra chi è entrato nel Regno di Sardegna dopo Salasco, e ha quindi diritto a restare, e chi invece vi entrato dopo aver partecipato a tumulti politici in altre zone, perciò da rimpatriare. Si allontana chi è sprovvisto del certificato di autorizzazione a risiedere nel Regno – anche se poi in molti riescono facilmente a rientrare – e i soggetti giudicati più pericolosi li si dirottano fuori dalla penisola, con imbarchi coatti.

Ma al tempo stesso – per chi viene accolto – non mancano misure di sostegno e interventi di soccorso.

Tra il 1848 e il 1849 viene disposta in favore degli esuli una somma di 300.000 lire. Nel 1850 il sussidio diventa parte integrante del bilancio statale, fissato prima in 100.000 e poi in 80.000 lire annue – ridotte a 60.000 nel 1858 – a cui si aggiunge uno stanziamento di altre 60.000 lire, nel febbraio 1851, per gli Ufficiali che avevano preso parte alla difesa di Venezia.

Il gestore dei fondi è il Comitato Centrale per l’Emigrazione, istituito formalmente a Torino nel dicembre del 1848, ma già attivo da giugno. Lo presiede il Ministro dell’Interno Urbano Rattazzi, ma di fatto è amministrato dall’abate Carlo Cameroni, figura tanto intraprendente quanto discussa, per la discrezionalità del suo operare: è accusato di disparità nella distribuzione dei sussidi, con privilegi ingiustificati e altrettanto ingiustificati dinieghi, e viene guardato con diffidenza per la sorveglianza esercitata sull'emigrazione stessa, per scovarne gli elementi potenzialmente avversi al Governo, sospettati di organizzare trame sovversive d’ispirazione mazziniana.

Nel settembre 1858 il clima nel Regno del Lombardo Veneto s’inasprisce ulteriormente: l’Impero austriaco modifica radicalmente il sistema di reclutamento nell’esercito, le liste di arruolabili non sono più formate con l’iscrizione volontaria e completate con l’estrazione a sorte, ma si introduce l’obbligo personale al servizio di leva e si sopprime la possibilità di evitarlo con la presentazione di un sostituto e dietro una corresponsione pecuniaria.

La prospettiva di una milizia obbligatoria nell’esercito austriaco crea agitazione tra i più giovani, anche per le voci insistenti di una guerra imminente. Cavour coglie al volo il malcontento. Invita i coscritti lombardo-veneti a venire in Piemonte, immagina al più seimila giovani da usare non tanto in termini militari, quanto in chiave politica per provocare il casus belli con l’Austria. «On laisserait entendre que les réfractaires de la nouvelle leveé ne seraient pas inquiétés en Piémont» – scrive il Conte a Costantino Nigra, il 13 dicembre – «Cela suffirait pour en amener chez nous un très grand nombre. Les meneurs disent 2 ou 3 mille, je n’en calcule que 5 ou 6 cents. On ferait mousser la chose. L’Autriche en réclamerait l’extradition en vertu des traités existants. Nous la refuserions en disant que le tr aité d’extradition avait été fait lorsqu’il existait en Autriche une loi conforme aux usages des pays civilisés; que la loi nouvelle est inhumaine, que par conséquent nous ne voulons pas nous prêter à l’exécution de mesures barbares».

Chi vuole emigrare trova solitamente una rete organizzativa di supporto – che suggerisce tragitti, alloggi, guide – ma raggiungere il Piemonte non è facile, e lasciare il Veneto, in particolare, è un’autentica impresa. Serve valicare i monti del Trentino e dell’Alto Adige, e attraversare il Cantone dei Grigioni e il Canton Ticino, se si vuole seguire la via della Svizzera; oppure si deve passare per l’intera Lombardia. Il tragitto è comunque lungo e i rischi sono alti: la stretta sorveglianza della polizia austriaca lungo i confini, le attese snervanti, le estenuanti marce a piedi e i pericoli nell’attraversare a nuoto il Mincio, e poi le difficoltà nel trovare guide affidabili e barcaioli disposti a traghettare i fuggitivi, sono tutti ostacoli – fisici e psicologici – che rendono altamente incerto il successo dell’intrapresa.

Il veneziano Giuseppe Zolli e i suoi compagni, nel tentare il passaggio da Lecco per la Svizzera, si ritrovano circondati da gendarmi e finanzieri. Riusciranno a fuggire, ma solo cedendo denaro, oggetti di lusso, e sin anche i loro vestiti, a contrabbandieri esperti dei sentieri di montagna.

Meno fortunato è il vicentino Luigi Cavalli, che nell’aprile 1859, nel suo primo tentativo di oltrepassare il confine, viene arrestato a Pavia, trasferito nelle prigioni di Santa Margherita a Milano, e infine scortato a Vicenza, dove è posto sotto sorveglianza e costretto a presentarsi all’ufficio di polizia. Solo l’intercessione del padrino gli permetterà di tornare a Padova, per continuare gli studi.

Piuttosto curioso è il caso del bassanese Marco Melchiorazzo e dei suoi quattro compagni di avventura. Il gruppo attraversa il fiume nei pressi di Ostiglia, quindi scende a Revere e passa a Mirandola. Ma qui i giovani vengono scambiati per spie austriache, arrestati e accompagnati alla cittadella di Modena. Restano undici giorni in carcere, per esser poi trasferiti a Reggio e da qui a Viadana e Canneto, rimanendo imprigionati altre due settimane, prima di essere finalmente liberati.

Dalle memorie di altri emigrati si ricostruiscono ulteriori percorsi. Remigio Piva e Lodovico Paoli partono da Venezia il 2 giugno 1859, in direzione Padova, dove si incontrano con un altro compagno, Luigi Baseggio, e da lì prendono un calesse per Adria, da cui non rimane che attraversare il fiume per approdare nelle Romagne.

«Camminammo per ben cinque ore attraversando le valli di Adria, valicando fossi e piccoli fiumicelli, sempre silenziosi e camminando potrei dire quasi in punta di piedi per timore di venire sorpresi. Ci parve eterno il nostro cammino e, quando credevamo d’esser giunti alla meta del nostro sì disastroso viaggio, ci si fece fermare entro un piccolo fosso per ben mezz’ora, mentre la nostra scorta s’avviava onde avvisare del nostro arrivo quegli che ci dovea condurre al di là del Po: ma con nostro sommo rammarico ci ritorna dicendoci non esser possibile il passo, doversi aspettare la mattina. Dovemmo ritornare e, rifacendo un buon miglio di cammino, passammo il rimanente della notte in una casa di campagna aspettando il mattino. Da qui ci si venne a levare verso le 6 antimeridiane il giorno 3 giugno e, dopo un piccolo alterco con la scorta e col passatore, alla fine fummo condotti alla sponda del Po. Quivi aspettammo alcun poco per non venir sorpresi, quando un finanziere pontificio ci traghettò al di là verso le 8 antimeridiane, salvi, giocondi con la gioia dipintaci sul volto, quantunque stanchi ed affaticati da un sì disastroso viaggio».

«... dopo la sollevazione delle legazioni e dei ducati nell’Italia centrale
e dopo la cessione della Lombardia al Piemonte, sancita dall’armistizio di Villafranca,
il flusso di emigrati dal Veneto aumenta in modo considerevole.
Circa 20.000 sono i volontari provenienti dal Veneto nel biennio 1859-60:
15.000 entrano a far parte dell’esercito della Lega dell’Italia centrale,
5.000 raggiungono Garibaldi nell’Italia meridionale.
A questi sono da aggiungere tutti quelli che per un motivo o per l’altro
non prendono in mano le armi, per un totale di circa 40.000 solo alla fine del 1859»
(Angela Maria Alberton)

L’emigrazione in Piemonte dopo il 1848 è un fatto rilevante, per numeri e significati sociali e politici. Le testimonianze dell’epoca restituiscono cifre fortemente variabili, che oscillano da un minimo di 12-15.000 unità a un massimo ragionevole di 100.000, in ragione di chi scrive e del periodo di riferimento.

Per fronteggiare l’intensità crescente del fenomeno si costituiscono Comitati di sussidio e arruolamento, nel settentrione e al centro della penisola.

Nell’agosto 1859, a Milano, prende forma il primo Comitato di Sussidio per l’Emigrazione Veneta (e delle altre provincie italiane occupate dall’Austria) con l'obiettivo di trovare occupazioni agli emigrati veneti, provvedendo nel frattempo al loro mantenimento con contributi pubblici e privati. Gli si affianca un comitato politico, che arruolerà ben 14.300 volontari veneti tra l’agosto del 1859 e il gennaio del 1860.

A ottobre un Comitato simile sorge anche a Brescia – città di confine, meta di numerosi profughi – e ben presto si scinde anch’esso in due, per emulare la struttura del Comitato milanese: un Comitato d’arruolamento e sussidio, costituito da cittadini bresciani, e un Comitato politico, composto da veneti e in contatto con quello di Torino. Analoghe iniziative prendono piede a Ferrara, Modena, Genova, Firenze, Bologna, Piacenza e Reggio Emilia.

L’emigrazione accentua la sua funzione politica e simbolica, perciò va incoraggiata. «La gioventù della Venezia emigri in massa» – scrive il Comitato di Ferrara ai veneti, in un proclama del 17 settembre 1859 – «chi può l’assista di consiglio e di mezzi, accorra a combattere per la redenzione della terra natia, a cacciar l’Austria per sempre, perché essa abbia cessato di conservarci servi, attentando continuamente alla indipendenza dell’intera penisola… Mostriamo loro che vogliamo essere liberi perché ne siamo degni e degni perché lo vogliamo».

Nel dicembre del 1859, a Torino, sorge il Comitato Politico Centrale dell’Emigrazione Veneta, per coordinare una struttura periferica divenuta piuttosto articolata. Anche Cavour, ora, è interessato a conoscere il numero degli emigrati e la loro condizione, «onde poter dimostrare all’Europa che l’Austria domina il Veneto, non regna sui Veneziani» come scrive l’11 febbraio 1860 ad Agostino Depretis, allora Governatore di Brescia.

A maggio, la spedizione di Garibaldi in Sicilia riaccende la speranza di una liberazione del Veneto, e dà un'ulteriore spinta all'emigrazione. «Ricordatevi che in Sicilia oggi si pugna per la Venezia, e per la totale indipendenza» si legge in un proclama di quei giorni.

Dall’estate del 1860 si iniziano a raccogliere quante più informazioni possibili sul numero di volontari veneti arruolati nell’esercito garibaldino. Il loro apporto è quantitativamente rilevante e ancor più importante è farlo conoscere, come accade nel proclama del 18 settembre 1860 dei rappresentanti dell’emigrazione veneta a Torino, in cui si enfatizza la pronta risposta del Veneto all’appello di Garibaldi.

«È bene che l’Europa sappia quale contingente di prodi le Venezie diedero all’esercito liberatore dell’Italia meridionale, all’esercito che nove milioni di fratelli ridona alla patria comune. Da diligenti indagini, e dalle relazioni dei diversi comitati di arruolamento, ci consta che sino alla metà dell’agosto p.p. si arruolarono e partirono per la Sicilia ben oltre cinquemila e duecento giovani veneti, senza contare quelli non pochi che vi si recarono direttamente e non diedero il nome loro ai registri. Il quale contingente potrebbe parere maraviglioso a chi ripensi i fieri pericoli dello emigrare dalle provincie occupate dallo straniero, e a chi rammenti le molte migliaia di volontarii veneti, d’ogni arma, e d’ogni grado, che afforzano lo esercito regolare del Re. A Calatafimi, a Palermo, a Milazzo, a Reggio, molti giovani della Venezia si segnalarono fra i più bravi, e si mostrarono degni soldati del loro Duce».

Il successo garibaldino nella Battaglia del Volturno, a cavallo tra settembre e ottobre, sembra rendere possibile ogni cosa, persino la liberazione del Veneto.

Il 27 novembre 1860 – a Venezia – la polizia arresta un giovane sorpreso a cantare per strada un inno al Generale. «Con un canestro de orae e con quatro canonae… Vegnirà Garibaldi a ste palae». La madre si precipita dal commissario per chiederne la scarcerazione, e si sente ironicamente replicare che il figlio sarà liberato quando verrà Garibaldi. «Ogio da aspetar sin sto Marzo?» esclama ingenuamente la donna, per poi confessare alle guardie esterrefatte che dell’arrivo ormai prossimo del Generale «l’o sentio a dir per le strade».

Assicurata da Napoli per Torino del 15 dicembre 1860, affrancata con un falso depoca da 20 grana,
dalla Commissione Patriottica Veneziana in Napoli  istituita da Garibaldi il 20 settembre 
al Comitato Politico Centrale Veneto per lEmigrazione italiana.
In una stessa lettera si intrecciano il Regno di Napoli, in dissolvenza,
il Regno dItalia, centrato a Torino, in fase di formazione,
e un territorio, il Veneto, destinato a completare lItalia che sarà.

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