Prologo
Nel mezzo della propria vita si è a un tratto sospinti a mettere insieme degli oggetti, a custodirli in un cerchio magico, per salvarli dalla dispersione, dalla rovina, dall’oblio.
Incitati dall’amore per il processo, più che dal risultato, si inizia a cercare con impegno e dedizione, a selezionare con severità e ad assemblare con rigore, a conservare con crescente attenzione. La perseveranza trasforma piccole cose in grande costruzioni, finché un giorno ci si sorprende a compiere autentici gesti d’amore per mettere a fuoco una disposizione interiore attraverso la sua manifestazione visiva: la collezione.
Nessuno ovviamente coincide con gli oggetti che possiede e a cui è affezionato, né la sua identità dipende dalle cose – strettamente parlando neanche dal corpo – ma le cose portano tracce umane, sono il nostro prolungamento, e così quegli oggetti raccolti nel tempo si posizionano e si incastrano come in un puzzle, si circondano di un’aura, ricevono investimenti di senso, diventano portatori di significati intellettuali e sentimentali, sino a rivelare la natura del loro proprietario: il collezionista.
Gli oggetti a lungo ricercati ci fanno compagnia e ci sono fedeli, nel loro modo modesto e leale. Ciascuno ha una sua storia, mescolata alle storie delle persone che li hanno posseduti e amati. E oggetti e persone – insieme – formano una realtà unitaria che non si lascia smembrare, che infonde agli oggetti qualcosa della sensibilità di chi li ha riuniti, e di rimando lo emoziona di continuo «poiché egli ricercava con arte, come un estetico» – per dirlo con D’Annunzio – e quindi «traeva naturalmente dal mondo delle cose molta parte della sua ebbrezza».
“Al di qua del Faro” è parte di questa eroica staffetta che annoda pezzi di storie passate a cordoni di vite future, in cui ogni partecipante sussurra – con la scrittrice Lydia Flem – «gli oggetti hanno un’anima, e io mi sentivo in dovere di proteggerli da un destino troppo funesto».
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